David Robert Jones, David Bowie, nacque l’8 gennaio del ’47 a Londra. I primi dieci anni li trascorse a Brixton. Poi, nel ’57, la famiglia si trasferì nel quartiere di Bromley, nella Londra periferica. La mamma di David aveva avuto un figlio da un matrimonio precedente, Terry. Terry soffriva di schizofrenia. Sarebbe vissuto dagli anni Settanta in un ospedale psichiatrico. Si sarebbe suicidato nell’85. La sua storia e le sue sofferenze furono decisive per la formazione di David.
Il futuro rocker frequentò, a Bromley, la scuola dove nel ’62 si diplomò come grafico pubblicitario. Proprio in quel periodo subì il pugno che gli cambiò per sempre il colore dell’occhio sinistro. A causa di quella pupilla lesionata, fu oggetto di scherni.
David Bowie, tra entusiasmo e umori decadenti
Londra era Londra, alla metà degli anni Sessanta. Un crogiolo di rock, di avanguardie, droghe, locali. Uno sfavillio di giovinezza e di modernità. Notti lunghe e trasgressioni. Negozi all’avanguardia e colori. David era affamato di tutto questo. Ma, allo stesso tempo, guardava oltre. Quell’ottimismo sfolgorante non era il suo. David era inquieto, attratto dalle solitudini. In questo oscillare tra la frenesia del nuovo mondo e gli umori decadenti, c’era già David Bowie, che avremmo conosciuto come tutto e il contrario di tutto. Sempre alla ricerca di nuove vie e di nuove atmosfere.
La crescita di David Bowie
Intanto David, che cantava e suonava il sax, fondava una band dietro l’altra. Incideva quarantacinque giri di scarso successo e di scarsa importanza. Era influenzato dal folk di Bob Dylan. Adorava le malattie di The Velvet Underground & Nico. Cresceva. Affinava il suo artigianato.
Grazie al mimo Lindsay Kemp, che incontrò nell’estate del ’67, prese dimestichezza con il linguaggio del corpo, con quella gestualità che ci avrebbe tanto affascinato. A quell’epoca aveva già cambiato il nome in David Bowie, grazie all’intuizione del suo primo manager, Ken Pitt.

Foto di Sara The Freak su Unsplash.
Space Oddity, il primo successo di David Bowie
Nel giugno del ’69 la carriera di Bowie ebbe un’impennata. Il singolo Space Oddity sarebbe restato un caposaldo della sua discografia e uno degli episodi più affascinanti del rock. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, era tra i due decenni anche per gli umori che lo imbevevano. Da un lato la psichedelia, che aveva impregnato il rock della seconda metà dei Sessanta, dall’altro i primi accenni di quel glam rock decadente che di lì a poco ci avrebbe incantato.
Le parole del brano restano misteriose, nonostante i tentavi d’interpretazione. L’inquietudine pervade quel «ritornello epico e struggente» (Claudio Fabretti). Space Oddity è lo smarrimento di Bowie nell’universo, la sua alienazione e la sua nostalgia delle origini.
Le affascinanti atmosfere spaziali andavano di pari passo con l’allunaggio, che catturava le attenzioni di quell’estate. Anche per questo il singolo ebbe ottimi riscontri commerciali. La storia di David era decollata.
Ma l’album che conteneva Space Oddity, uscito a due anni dal 33 di debutto (David Bowie), non ebbe successo, e mostrava un Bowie che, al di là di quella canzone capolavoro, era ancora incerto sulla strada da prendere.
L’inizio degli anni Settanta
La strada la imboccò all’inizio dei Settanta. David Bowie avrebbe interpretato come pochi le malattie e le disillusioni di quel decennio.
Dopo il matrimonio del marzo del ’70 con Angela Barnett, e dopo l’incontro fondamentale con il chitarrista Mick Ronson, David si immerse nel periodo di massimo fulgore della sua carriera, gli anni Settanta.
La sua musica divenne più dura. I suoi vestiti e le sue pose scandalizzavano per l’incertezza sessuale che veicolavano. Le sue interviste facevano altrettanto. La sua gestualità nei concerti si affinava. L’inquietudine colava dappertutto. Insomma, signori, benvenuti negli anni Settanta. Non c’era più spazio per l’ottimismo degli hippie. Quelle erano robe fanciullesche. Ora c’era posto solo per gli umori decadenti e la disillusione.
Nel ’70 David Bowie pubblicò The Man Who Sold the World. La celebre copertina, in cui era vestito da donna, fu oggetto di polemiche. Gli Stati Uniti la censurarono. Bowie aveva raggiunto lo scopo, quello di creare scandalo e di far parlare.
L’anno dopo pubblicò Hunky Dory, che trasudava di inquietudine e di glam. Un album pieno di sprazzi di genio, a partire dall’indimenticabile melodia di Life on Mars?.
Il successo di critica dei due dischi anticipava quello più vasto del successivo, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, uscito nel ’72.
Ziggy Stardust
Ziggy Stardust è uno dei personaggi più celebri tra quelli partoriti dal genio londinese. Il 33 volò, nelle vendite e nei giudizi della critica. Il tour successivo fu un trionfo.
Il concept racconta la parabola di Ziggy Stardust, il prototipo del rocker che diventa il mito delle folle, prima di essere distrutto dal suo stesso mito. L’album prendeva di mira l’arrivismo che domina i nostri tempi, l’inutilità del successo, buono solo per l’ubriacatura di un attimo. David Bowie prefigurava il suo stesso futuro. Era consapevole che i meccanismi del successo lo avrebbero stritolato. Metteva in dubbio la sincerità del rapporto tra la rockstar e i suoi fan: l’una vuole emergere, gli altri vogliono un idolo. Poi Bowie metteva alla berlina, nei concerti, con i suoi trucchi e con le sue calzamaglie, le convenzioni dei benpensanti. Ziggy Stardust racchiudeva un mucchio di cose. Ed era la quintessenza del glam. Per le pose e l’abbigliamento, e per la musica, carica di arrangiamenti ricchi e di melodie appetitose. Un rock che in più a tratti diventava duro e quasi punk.
David Bowie, uno scienziato del rock
Soprattutto Bowie impose una figura di rocker diversa dalla solita. Un’arte, la sua, che non si fondava sull’immediatezza tipica del rock, ma sul progetto. Il suo rock era una scienza esatta che aveva come scopo il successo planetario. Questo è il motivo per cui Bowie, oltre agli innumerevoli ammiratori, ha avuto negli anni oppositori decisi. Ma la freddezza progettuale era quella di un artista inquieto, che con la sua intelligenza dava corpo al suo animo decadente e raggiungeva esiti intensi.
Le canzoni di Ziggy Stardust sarebbero restate nelle leggende del rock, a partire dalla celebre Starman, con quella melodia favolosa, e da Rock ‘n’ Roll Suicide.
Nel ’72 David contribuì a un altro gioiello glam, producendo Transformer di Lou Reed.
L’anno dopo pubblicò Aladdin Sane, l’ultimo atto della sua entusiasmante fase glam. Il disco replicò il successo di Ziggy Stardust. Ed era proprio quello che Bowie voleva: uccidere la sua maschera prima che lo facesse il pubblico. Un altro segno dell’intelligenza di David, che guardava dall’alto le sue vicende artistiche, gestendo la sua carriera da scienziato del rock. David sapeva quanto un mito fosse soggetto a esaurirsi. Lo aveva cantato proprio in Ziggy Stardust. Lui invece, affamato di successo com’era, voleva, sotto forme diverse, continuare a stare in vetta. E ci sarebbe stato, fino alla fine.
La metà degli anni Settanta. Il Duca Bianco e la follia di David Bowie
Dopo il trasferimento negli Stati Uniti, nel ’74 uscì Diamond Dogs, un album di passaggio.
Con Young Americans, del ’75, David Bowie si avvicinò al soul. Per il singolo Fame, che raggiunse il vertice delle classifiche americane, collaborò con John Lennon.
Nel ’76 fu messo nelle sale L’uomo che cadde sulla Terra, un film di Nicolas Roeg, il cui ruolo di protagonista fu affidato a Bowie. Dopo quest’applaudita interpretazione, il rocker, artista totale, si imbarcò in una carriera parallela.
Sempre nel ’76 entrò nei negozi Station to Station, bellissimo incontro di elettronica e musica black. Il 33 presentava il nuovo personaggio di David Bowie, il Duca Bianco. Quest’uomo vestito di tutto punto, pantaloni neri e camicia bianca, capelli corti all’indietro, freddo e aristocratico, metropolitano e alienato, avrebbe caratterizzato la sua carriera per anni.
Intanto la vita dell’artista sembrava in un vicolo cieco. Infatti, perso nelle sue follie, devastato da un uso incontrollato di cocaina, David era, a detta di chi gli stava vicino, a un passo dalla morte. Il suo matrimonio ne risentiva. La mente di Bowie era offuscata.
La cupezza di Berlino
David Bowie provò a tirarsi fuori da quella disperazione. Così nel ’77 si trasferì a Berlino. Era catturato dal fascino di questa metropoli, dalle sue atmosfere cupe e mitteleuropee. Berlino, con il suo Muro che divideva il mondo in due, era anche il centro della storia e il simbolo della sua tragedia personale.
Low (1977), Heroes (1977), Lodger (1979). La trilogia berlinese si impose come un caposaldo di quel decennio. Bowie, per questi monumenti, collaborò con Brian Eno. Un’intesa tra le più proficue del rock. La trilogia prolungava le atmosfere tetre di Station to Station. Il canto di David era intenso come non mai. L’elettronica sapeva di futuro. In particolare Heroes raggiungeva altezze vertiginose. Poi il brano omonimo, che sarebbe restato tra i più celebri del rock, lasciava intravedere segni di speranza e di riscatto, con quell’amore vissuto sotto il Muro. Heroes e gli altri due album berlinesi catturavano le atmosfere degli anni Settanta, tra tappeti elettronici e cupezze. Un clima opprimente e gelido. Ma fu quell’inferno a rigenerare David.

Foto di Gabriel Bassino su Unsplash.
Negli anni Ottanta
Le incomprensioni che da qualche anno minavano il rapporto del rocker con Angela portarono al divorzio nel 1980. I due avevano avuto nel ’71 un figlio, Duncan Jones. Il bambino fu affidato al padre.
Dopo aver portato a termine l’entusiasmante esperienza berlinese, tornato negli Stati Uniti, David Bowie pubblicò, all’alba del decennio, Scary Monsters (and Super Creeps). L’album era un trait d’union tra il Bowie sperimentale del decennio precedente e quello più popolare degli Ottanta. Per alcuni è questo l’ultimo grande lavoro bowiano.
In effetti ora David strizzava l’occhio alle masse. I suoi capolavori del passato avevano avuto grandi consensi, ma la loro impronta era elitaria e avanguardistica. In questi anni, al contrario, Bowie era essenzialmente commerciale. Ma proprio questo pop così vendibile faceva sì che Bowie fosse un simbolo del decennio, così come lo era stato del precedente. Gli anni Ottanta, al di là di generi e di sperimentazioni, erano un’epoca di spensieratezza e di mode, di ottimismo e di concerti oceanici. Erano una lunga estate. In quell’estate, Bowie era a suo agio, come lo era stato nei Settanta.
Let’s Dance e il resto del decennio
A fine 1981 uscì il singolo Under Pressure, una collaborazione con i Queen che scalò le classifiche.
Tra gli album di questi anni ricordiamo Let’s Dance, del 1983, che è il succo del Bowie anni Ottanta. Un artista che al solito coglieva lo spirito dei tempi. Il brano omonimo si diffuse in ogni angolo del globo. L’album fu per la Emi il più grande successo dai tempi del Sgt. Pepper dei Beatles. Ma Let’s Dance fermava le atmosfere di quel decennio perché il suo pop buono per tutti e la sua dance venivano sotto sotto nobilitati da una classe antica e da un tocco del rock che fu.
Dopo il successo oceanico del 33, David Bowie si ubriacò e sprofondò negli Ottanta. Ci sprofondò così tanto che non era più riconoscibile. Celebri i suoi tour mastodontici. I fan di vecchia data erano spaesati.
In questi tempi portò avanti la sua carriera di attore, ottenendo consensi anche in teatro. Ebbe anche un piccolo ruolo nel film cult dell’81, Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, la cui colonna sonora erano le canzoni berlinesi di Bowie.
Nell’89 David tornò al rock duro come cantante della band Tin Machine. L’album omonimo di debutto provava a ricordare alla critica delusa chi era Bowie.
In realtà David aveva dato quasi tutto. Ed era tanto. La sua spinta avanguardistica si era arrestata.
Ma avrebbe ancora pubblicato tante cose di buona fattura. Fino al colpo di scena del 2016. La classe non è acqua.
Ancora tante cose
Nel giugno del ’92, a Firenze, David sposò Iman, una modella somala. Dalla loro unione, nel ferragosto del 2000, nacque Alexandria Zahra.
David Bowie fece tante cose, fino alla fine. Si quotò anche in borsa, nel ’97.
Si esibì ancora tante volte, sia nei teatri, dove tentò di recuperare un rapporto più diretto con il pubblico, sia in spazi più ampi. Nel ’97, per i suoi cinquant’anni, fu al Madison Square Garden di New York, che accolse vari ospiti. Tra questi, Lou Reed, il cui capolavoro del ’72, Transformer, era stato prodotto proprio da Bowie. L’ultimo show lo tenne per beneficenza con Alicia Keys, nell’autunno del 2006, alla Black Ball di New York.
Dopo aver chiuso l’esperienza dei Tin Machine nel ’92, il rocker pubblicò vari album da solista, ora occhieggiando il suo passato, ora tentando cose nuove. Spiccano Outside del ’95, Earthling del ’97, The Next Day del 2013. Album che prolungavano la confidenza di David con i vertici delle classifiche.
In questi anni ottenne vari riconoscimenti. Tra questi, la grande mostra a lui dedicata, che, partita dalla sua Londra nel 2013, fece il giro del globo.
Blackstar, l’ultimo colpo di classe di David Bowie
Il 19 novembre del 2015 David pubblicò Blackstar, il primo singolo estratto dall’album omonimo, che avrebbe dominato le classifiche di mezzo pianeta. La critica e i fan esultarono per questo ritorno in grande stile. Un brano di classe, che sfiorava i dieci minuti. Un David in forma, ancora voglioso di stupire. Un brano dalle tinte prog, dalle atmosfere jazz, dall’arrangiamento raffinato, dallo spirito alternativo, dall’interpretazione sentita. Colpì, del brano e del video, il clima minaccioso e tombale.
Il 14 dicembre del 2015 uscì Lazarus, il secondo singolo estratto.
Il 7 gennaio 2016 uscì il video di Lazarus, dove un Bowie bendato era sul letto di un inquietante ospedale e un altro Bowie, alla fine del video, scompariva in un armadio.
L’8 gennaio 2016, a sessantanove anni esatti dalla sua nascita, David Bowie pubblicò l’album Blackstar, dai sapori lugubri, tra sperimentalismo, elettronica, colori jazz, tocchi contemplativi, estro.
Due giorni dopo morì. Era malato di cancro da diciotto mesi. Ma non lo sapevamo. L’ultimo colpo di teatro.
David Bowie
David Bowie, più che inventare, ha organizzato le invenzioni ardite del suo tempo, mettendole alla portata di un pubblico più ampio. E questa è stata la sua grande invenzione. Più che uno sperimentatore, è stato un fan della sperimentazione. È stato un genio, che si muoveva nell’universalità dei generi, riorganizzandoli in modo coerente, con la sua impronta unica. Bowie è stato un grande diffusore delle avanguardie. Ha portato nel mainstream l’underground. Era un po’ di qua per alcuni, un po’ di là per altri. In definitiva, era in equilibrio supremo tra masse ed élite.
David Bowie, prima di tutto, è stato uno degli animi più decadenti del suo tempo.