Lou Reed. La biografia e gli album

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Lou Reed nacque a New York il 2 marzo del ’42 da una famiglia ebrea benestante e crebbe a Freeport, Long Island. Dopo essersi dedicato per un po’ al pianoforte, iniziò verso i dieci anni a prendere confidenza con il suo strumento, la chitarra.

Già negli anni dell’adolescenza prese a manifestarsi il suo destino. La sua personalità rock veniva fuori con le ribellioni e il rifiuto dell’autorità. La scuola e il conformismo familiare non facevano per lui.

Il comportamento marcatamente anticonformista e le sue inclinazioni omosessuali preoccupavano la famiglia, che si rivolse alla psichiatria. Lou Reed aveva diciassette anni quando fu sottoposto all’elettroshock. Fu un’esperienza devastante per il ragazzo, che incrinò definitivamente i suoi rapporti con i genitori.

Gli anni dell’università

La Syracuse University fu per Reed l’occasione di allontanarsi dalle atmosfere provinciali di Freeport e dal convenzionalismo familiare.

Negli anni dell’università prese definitivamente forma il suo ribellismo, tra droghe e notti maledette. Il ragazzo si appassionò alla letteratura. Iniziò a percorrere le strade del rock. Instaurò un rapporto profondo con il poeta Delmore Schwartz, suo professore. Schwartz, omosessuale, alcolista, era un’icona di anticonformismo per Lou Reed. Dal suo stile avrebbe preso le mosse la poesia scabra di Lou. Fu in quegli anni che il futuro rocker maturò l’idea di un rock adulto, lontano dai testi adolescenziali. Fu sempre in quegli anni che iniziò a concepire il nucleo tematico che lo avrebbe reso celebre: le disperazioni metropolitane, l’autodistruzione, il ribellismo irriducibile.

Lou Reed a New York

Dopo l’università, alla metà degli anni Sessanta, Lou Reed era a New York. Cominciò a darsi da fare. Scriveva su commissione per una piccola etichetta. Naturalmente non era quella la sua strada.

Conobbe John Cale, un giovane polistrumentista di talento. Cale suonava la viola, il pianoforte e il basso. Era gallese. Si trovava a New York per motivi di studio. L’incontro tra i due fu decisivo per i destini del rock.

Nell’inferno della metropoli

Lou e John pensarono bene di fondare un gruppo. Gli altri due erano il chitarrista Sterling Morrison e la batterista Maureen Tucker, entrata al posto di Angus McLise. Morrison e Lou Reed si conoscevano dai tempi dell’università. La Tucker era decisiva per il sound della band. Il suo battito era elementare e primitivo. La sua ritmica tribale e ossessiva era la colonna sonora della New York sotterranea, malata, viziosa.

Il gruppo si esibiva nei sotterranei, per piccole platee d’avanguardia. Il gruppo si chiamava Velvet Underground.

I Velvet Underground cantavano la dannazione delle notti, i derelitti, l’autodistruzione. Protagonisti di quei brani erano le droghe, il sesso perverso, la disperazione. Quelle canzoni, in fondo, non erano canzoni. Erano frammenti rumorosi strappati alla metropoli notturna e depravata.

La poesia scarna e la voce strascicata di Lou Reed. Il rock lascivo. L’avanguardia colta di John Cale. La sua viola, le chitarre distorte, il ritmo tribale della batteria, quella poesia decadente. Tutto era un insieme perfetto e perverso, frutto di un prodigio.

Il rock era nuovo, con i Velvet Underground. Non c’era più traccia di blues. C’era lo stordimento, che interagiva con le origini colte della musica di John Cale. Soprattutto, con i Velvet Underground, il rock diventava elitario. Il rock era arte. Quelle canzoni erano anticonformiste. Non erano commerciali. Erano pezzetti d’inferno.

Il primo album dei Velvet Underground

Era il 1965 quando i Velvet Underground e Andy Warhol incrociarono i loro destini. Warhol scovò i quattro in un buco di New York. Li portò alla Factory. Qui Lou Reed incrociò le storie e le perversioni dei suoi frequentatori notturni. Tra questi, Jim Morrison, Bob Dylan, i Rolling Stones.

Andy Warhol affiancò al gruppo la tedesca Nico. Fu il tocco finale, che si sarebbe rivelato decisivo. Il canto di Nico sarebbe entrato nelle leggende. Immobile, enfatico, funereo, profondo.

Warhol produsse il primo album di Lou Reed e compagni, The Velvet Underground & Nico (1967), e ne disegnò la memorabile copertina.

Il disco immobilizzò per i posteri le atmosfere di degrado e di annichilimento che i Velvet avevano portato nei circoli viziosi di New York. I’m Waiting For The Man e Venus In Furs sarebbero diventati classici del rock alternativo. Le ballate decadenti Femme Fatale e All Tomorrow’s Parties, cantate da Nico, erano gioielli senza tempo. Il 33 sarebbe stato riconosciuto nei decenni come uno dei più importanti del rock. Ma sul momento non ebbe riscontri commerciali. Lou Reed avrebbe vissuto una situazione simile con Berlin, album del 1973 tra i più leggendari della sua carriera solista.

Lou Reed e gli altri Velvet
Lou Reed, gli altri Velvet e Nico in una foto promozionale del ’66.

Gli altri album dei Velvet Underground

Dopo questo esordio, Lou Reed e compagni, complici alcuni dissidi, proseguirono privi dell’anima mitteleuropea di Nico e della supervisione di Andy Warhol.

Il secondo 33, White Light/White Heat, del 1968, esasperava lo sperimentalismo e il baccano, che in The Velvet Underground & Nico venivano contrappuntati con una compostezza che sotto sotto resisteva. Il tema di fondo dell’Lp restava l’alienazione urbana. Era un album bello, inferiore al primo.

Se il secondo 33 radicalizzava l’avanguardismo, il terzo, The Velvet Underground, del 1969, portava in primo piano un rock più tradizionale, la forma canzone, la malinconia. John Cale aveva lasciato il gruppo, e Lou Reed spadroneggiò, nella scrittura e in tutto il resto. A sostituire Cale fu Doug Yule. The Velvet Underground era l’inizio del declino, ma era ancora un lavoro splendido. Alcuni suoi brani sarebbero diventati classici velvettiani, come la commossa Pale Blue Eyes, che Lou Reed dedicò al grande amore, Shelley, ormai persa tra i fumi del passato, e la malinconica After Hours.

Quando uscì il quarto album, Loaded, nel 1970, il gruppo era ormai disgregato.

I Velvet Underground avevano inventato un modo di fare musica che prima era impensabile. Indipendente dal mercato e dal buon senso, eversivo e coraggioso. Una scheggia della loro arte l’avremmo ritrovata in ogni espressione di rock trasgressivo.

Il primo album del Lou Reed solista

Deluso dalla disgregazione dei Velvet, Lou Reed si allontanò dalla musica. Tornò a Freeport, dai genitori. Tentò di mettere a tacere le sue tendenze omosessuali, condizionato dall’educazione ricevuta. Sposò Bettye.

Ma il rock premeva. Lou tornò a New York. Riprese a frequentare i circoli d’avanguardia. S’imbatté in un’occasione offertagli dalla Rca.

Lou Reed, album inciso a Londra, uscì nel 1972, inaugurando un’esaltante esperienza solista, dove, senza lo sperimentalismo di John Cale, sarebbe uscita la vena cantautorale del rocker.

Ma l’esordio non fu all’altezza delle aspettative. Le critiche non generose e il mancato riscontro commerciale sembravano mettere fine alle ambizioni di Lou. In quello stesso periodo, i dischi dei Velvet Underground uscivano gradualmente dalle nicchie e cominciavano a imporsi in tutta la loro preveggenza.

Transformer, l’album che sancì il successo commerciale di Lou Reed

La Rca diede una nuova opportunità a Reed. Ma il nuovo album lo avrebbe dovuto produrre David Bowie, che si stava affermando con il suo glamour decadente.

Transformer uscì nell’autunno del ’72, e sancì il successo commerciale di Reed.

Lou aveva dovuto accettare il compromesso. Così la sua arte era stata colorata di glam. Il risultato fu un bellissimo disco. Reed diede vita ad alcune delle sue canzoni più celebri. Vicious, Perfect Day, Walk On The Wild Side, Satellite Of Love sarebbero restati capisaldi del suo repertorio.

Il vecchio mondo di Reed, nella nuova veste, restava comunque vivo. Si prenda per esempio Walk On The Wild Side, con la sua passerella di personaggi deraciné e trasgressivi, tirati fuori dai tempi della Factory. E poi Perfect Day, che, dietro la dolcezza di una giornata perfetta con la persona amata, lasciava uscire rimpianti e lacrime trattenute.

Cambio di direzione

Lou Reed era all’apice. Ma non era Lou Reed. Il successo commerciale immediato era una novità. Era un campanello d’allarme. Ma fu grazie a quest’affermazione che poté imporre all’etichetta un 33 che andava in direzione opposta. La Rca protestò. Rifiutò di pubblicare il doppio album a cui aveva pensato Reed. Ma alla fine, nel 1973, Berlin uscì.

Berlin, l’album capolavoro di Lou Reed

Per alcuni è questo il vertice del Reed solista, nonostante l’accoglienza negativa. Berlin riportava a galla il Lou Reed metropolitano e disperato, le sue storie di droghe e di violenza. Berlino, con le sue atmosfere cupe e fumose, fu presa come simbolo della metropoli decadente. Il concept raccontava una storia d’amore malata, i giorni disperati di una coppia in preda a droghe e violenze, nella Berlino degli anni Settanta. Lou Reed, in realtà, cantava il lungo inverno della sua anima.

Le atmosfere depresse, il degrado, l’assenza di ogni speranza ostacolarono la diffusione immediata di Berlin. Un disco che metteva su nastro la metropoli segreta, le realtà disperate. Ma Lou, dietro Jim e Caroline, i suoi due personaggi, parlava scopertamente di sé.

In Berlin non c’era il rock lascivo dei Velvet. Ma gli arrangiamenti ricchi, tra pop, jazz e rock, tra fiati e archi, accentuavano la miseria di quelle storie berlinesi, quel senso di decadenza e di morte. La sensazione di oppressione era sottolineata dalla bellissima copertina. Due vertici del 33 erano l’omonima Berlin, brano d’apertura, con le sue atmosfere malinconiche da locale fumoso e demodé, e Caroline Says II, capolavoro della disperazione. Il produttore fu Bob Ezrin, che uscì distrutto da quelle storie di alienazione estrema.

Berlino, la città dov'è ambientato il terzo album di Lou Reed
Per il suo terzo album Lou Reed prese Berlino come simbolo della metropoli decadente.
Foto di Carlos Pernalete Tua da Pexels.

Sull’orlo dell’abisso

Dopo quest’album rifiutato da critica e pubblico, Lou Reed era sempre più alla deriva. Le droghe sembravano aver preso possesso del rocker. Non si vedeva una via d’uscita. Lou era intrattabile, sul confine della morte. Era impossibile lavorare con lui.

Nel ’74 diede alle stampe due dischi, il live Rock N Roll Animal e Sally Can’t Dance, entrambi dovuti alla Rca per la precedente pubblicazione di Berlin. Se il primo, immobilizzando le atmosfere live di Reed, era bellissimo, il secondo, confezionato a scopi puramente commerciali, era trascurabile. Comunque Sally Can’t Dance riportò l’ex Velvet ai vertici delle classifiche.

Metal Machine Music, l’album più sperimentale di Lou Reed

Stufo delle pretese della casa discografica e del pubblico, che apprezzava solo le sue cose più commerciali, con una svolta che sapeva di protesta, che aveva molto più valore sul piano ideologico che su quello artistico, nel ’75 Lou Reed pubblicò l’avanguardistico ed estremo Metal Machine Music, un doppio album di chitarre distorte, di rumori provocatori, di elettronica, di follia trasferita su vinile, senza melodie né canto. Diceva il rocker nelle note di copertina: «Se questo disco non vi piacerà, non vi biasimo. Non è per voi. La mia settimana scandisce il vostro anno». Questa contrapposizione con il pubblico aveva già un sapore punk. Il punk rock, che stava lì lì per esplodere, si sarebbe infatti scagliato contro tutti, pubblico compreso. Ma i presupposti del punk c’erano già in The Velvet Underground & Nico e in quel suo rock indipendente dalle più elementari regole commerciali.

Naturalmente, il doppio 33 non ebbe nessun riscontro di vendite e si attirò l’opposizione decisa della critica. Anche per questo Lou Reed era Lou Reed. Metal Machine Music era comunque una parentesi nella discografia reediana, dove generalmente l’estrema trasgressione tematica era controbilanciata da una compostezza cantautorale. Negli anni questo lavoro di puro rumore sarebbe stato inserito in alcune classifiche dei peggiori album. Questo sarebbe stato il segno della riuscita dell’operazione.

Lou Reed, dall’abisso a una nuova vita, tra nuovi amori, album di transizione e successi

Intanto Lou si era separato da Bettye, vittima dell’irascibilità e della follia del rocker, dovute agli abusi incontrollati di alcol e di droghe. Più d’uno si chiedeva quale miracolo lo tenesse ancora in vita.

Lou ora conviveva con Rachel, un travestito di New York. Proprio a Rachel dedicò il primo dei due album del ’76, Coney Island Baby, che lo riportò, dopo la parentesi eversiva di Metal Machine Music, sulle rotte della forma canzone. L’album, dai sapori commerciali, ben confezionato, ottenne un ottimo successo. L’altro 33 di quell’anno fu il trascurabile Rock and Roll Heart, un divertimento commerciale.

Nel ’78, terminata la storia con Rachel, Lou Reed tornò nei bassifondi. Street Hassle era crudo, rabbioso, sprezzante. L’album era l’ennesimo rifiuto del perbenismo. Gli arrangiamenti erano essenziali.

Sempre nel ’78 Lou mise nei negozi il doppio live Take No Prisoners. Questa testimonianza, registrata in un club di New York, presentava canzoni stravolte e un Reed loquace e arrabbiato, che inveiva contro chiunque, critici e colleghi.

L’anno dopo uscì The Bells, dove si incontrarono il rock e il jazz.

Negli anni Ottanta Lou cominciò a ripulirsi dalle droghe, dopo essere stato sull’orlo dell’abisso. Era un sopravvissuto.

Sposò Sylvia.

Per quasi tutto il decennio pubblicò lavori trascurabili, fatta eccezione per The Blue Mask, uscito nell’82, che, grazie a testi ispirati e a un rock essenziale, ottenne consensi critici.

New York, l’album della rinascita di Lou Reed

Quando la sua carriera sembrava in un declino irreversibile, Lou Reed piazzò il colpo di classe. Era il 1989. L’album era New York. Per certo uno dei suoi vertici. Era questo uno dei Lou Reed più poetici. Il rocker tornò nelle periferie. Ma non vi tornò da rockstar maledetta. Lou portò a galla le contraddizioni dei nostri tempi, scegliendo la sua New York come simbolo di tutte le miserie. Povertà, razzismo, violenza, spaccio. Lou si fece portavoce dei derelitti, con immagini ora dure ora commosse. Il rock era scarno. Chitarre, batteria, basso. Un rock vero, non certo di moda negli anni Ottanta.

Reed si scagliava contro le ipocrisie di chi fa finta di non vedere, contro il reaganismo, contro una società che relega nei bassifondi i bambini, contro le ingiustizie sociali, contro le durezze del cuore. New York era un inno alla dignità della vita, ed era una protesta contro l’egoismo del potere. New York era poesia.

Pedro vive accanto al Wilshire Hotel

guarda fuori dalla finestra senza vetri

i muri sono di cartone

ha dei giornali sotto i piedi

e suo padre lo picchia

perché è troppo stanco per mendicare

Ha nove fratelli e sorelle

tirati su e sottomessi

è difficile correre quando hai segni

di frustate sulle gambe

Pedro sogna di essere più vecchio

e di uccidere suo padre

ma è una cosa improbabile

e va a finire nel lurido viale

[…]

Fuori è una notte luminosa

danno un’opera al Lincoln Center

le star del cinema arrivano in limousine

le luci al laser proiettate oltre il profilo di Manhattan

ma le luci sono spente nelle strade malfamate

Un bambino è in piedi vicino al Lincoln Tunnel

vende rose di plastica per un dollaro

il traffico è intasato sulla 39esima strada

le troie della Tv chiamano i poliziotti per succhiarglielo

E intanto al Wilshire Pedro sta seduto e sogna

ha trovato un libro di magia dentro un bidone della spazzatura

guarda le figure e fissa il soffitto crepato

«al tre» dice «spero di scomparire»

E volare, volare via

da questo lurido viale

Nel nuovo decennio

Andy Warhol era morto nell’87. In quell’occasione Lou Reed e John Cale si erano incontrati dopo molto tempo e avevano deciso di lavorare su alcuni brani. Songs For Drella, l’applaudito album in onore di Warhol, uscì nella primavera del ’90.

Un altro 33 intenso Reed lo pubblicò all’inizio del ’92, Magic and Loss, una riflessione poetica sulla vita e sulla morte, ispirata dalla perdita di due amici. La scelta fu ancora quella dell’essenzialità negli arrangiamenti.

Lou Reed i suoi vertici assoluti li aveva già toccati, con gli album dei Velvet Underground negli anni Sessanta, con Transformer e Berlin all’inizio dei Settanta, e con il toccante New York alla fine degli Ottanta. Ma il Reed del nuovo decennio era ancora un artista in forma, creativo, che non viveva sugli allori di una carriera mitica.

La reunion dei Velvet Underground

La voglia di cantare di Lou Reed era evidente anche nei concerti dei Velvet Underground riuniti. La mitica formazione originaria girò l’Europa nel ’93. Naturalmente quelle esibizioni non avevano nulla a che vedere con quelle di venticinque anni prima. Non bastava riproporre quelle canzoni e quelle facce. Mancavano la gioventù e il ribellismo sincero. I Velvet non erano vivi. Ma erano storia. E quella storia portata sui palchi di mezza Europa, ora che il gruppo era acclamato come precursore di una mezza dozzina di generi, era comunque affascinante. Era come toccare un pezzo di leggenda, che dalle cantine fumose della New York perversa era arrivata all’ufficialità del rock.

Dal tour uscì fuori un doppio live.

Il discorso non proseguì, visti gli antichi dissapori risorti. Sterling Morrison morì nel ’95. Gli altri tre della formazione originaria si incontrarono di nuovo nella cerimonia di inserimento nella Rock and Roll Hall of Fame nel ’96.

Verso la fine

Intanto, alla metà del decennio, Lou Reed aveva divorziato da Sylvia e aveva iniziato una storia con Laurie Anderson, artista d’avanguardia.

Il rocker, ormai in pace con se stesso, si mantenne su ottimi livelli fino alla fine. Pubblicò lavori ben confezionati, tra cui Set The Twilight Reeling del ’96, influenzato dalla nuova storia d’amore, con cui tornava a un rock più duro, e Ecstasy, con cui, entrando nel nuovo millennio da leggenda del rock, guardava al suo passato.

La storia di Lou era stata piena di trasgressioni e di rischi. Negli ultimi anni aveva avuto vari problemi e aveva subito un trapianto di fegato.

Era un giorno di fine ottobre del 2013 quando il vecchio leone ci lasciò.

Lou Reed era stato tra i primi a dare dignità e poesia al rock. Aveva inserito nelle sue canzoni una galleria di disperati. Tossici, prostitute, poveri. Aveva avuto sempre uno sguardo di compassione per i derelitti e per gli ultimi. Aveva vissuto al limite.

Lou Reed lasciò al rock un’eredità strepitosa.