Tre canzoni di Gino Paoli

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Gino Paoli ha avuto una carriera lunga, ma le sue canzoni più importanti e fresche sono tutte racchiuse negli anni Sessanta.

Nato nel ’34 a Monfalcone, in Friuli, Gino si trasferì presto a Genova.

Genova era nei primi Sessanta l’epicentro di una rivoluzione musicale che avrebbe portato alla piena affermazione dei cantautori. Una rivoluzione che avrebbe relegato nel passato una tradizione fatta di retorica e di bel canto. Ora erano la quotidianità e la freschezza a prendere il sopravvento.

Gli esponenti di punta della cosiddetta scuola genovese erano Luigi Tenco e lo stesso Paoli. Tra quei fermenti giovanili si muovevano anche Bruno Lauzi, Giorgio Calabrese, Umberto Bindi. Un posto a parte aveva Fabrizio De André, genovese, che proprio nei caruggi di Genova conobbe quell’umanità di derelitti che avrebbe popolato il suo canzoniere universale. Il De André degli anni Sessanta respirava sì quel clima ma stava oltre la scuola genovese.

Tutti questi bohémien erano influenzati da Jacques Brel, da Georges Brassens e da tutta la grande chanson francese.

Gino Paoli con le sue canzoni di quegli anni diede un impulso notevole agli sviluppi della nostra parola cantata. Di seguito tre dei suoi brani più belli.

La gatta. La nostalgia di una soffitta

Di gatti ne ha avuti tanti Gino Paoli, amante dei felini. Ma Ciacola occupa un posto tutto suo. È infatti lei la protagonista del primo brano di successo di Gino.

Beh, a dire il vero, La gatta, il pezzo in questione, stentò a decollare. Vendette poco o niente all’inizio. Poi con il passaparola uscì dai sotterranei e si ritrovò in classifica, iniziando la sua ascesa a classico della canzone italiana. Il destino toccato a questo brano è una metafora del brano stesso. Infatti, così come quel 45 giri del 1960 raggiunse la visibilità a partire dal quotidiano e dal passaparola, la bellezza della Gatta ha alla base situazioni umili e comuni.

Questo primo successo di Gino mostra la distanza tra lui e la tradizione. Non più testi pretenziosi e canto pomposo, ma il quotidiano e un’interpretazione vera e sporca.

C’era una volta una gatta

Che aveva una macchia nera sul muso

E una vecchia soffitta vicino al mare

Con una finestra a un passo dal cielo blu.

La casa in questione più che una casa era una soffitta. La zona di Genova dove stava quella soffitta era Boccadasse. Da quella finestra si vedeva il mare. Sia Paoli che Ciacola amavano quello scorcio di Mediterraneo. Non erano ancora gli anni della ricchezza e delle belle case. Ma quel buco di Boccadasse, quei profumi del mare, quella gatta hanno una poesia sconosciuta alla ricchezza. La nostalgia per quella poesia e per quella povertà, e per quella gatta, imbeve questo primo classico di Gino.

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Gino Paoli
Gino Paoli nel 2004.
Foto di Enrico Maioli su Flickr, CC BY-SA 2.0.

Il cielo in una stanza. Una delle canzoni più trasgressive di Gino Paoli

Disse una volta Paoli del Cielo in una stanza: «Quando gli editori vennero a dirmi che non era una canzone vera perché mancava dell’inciso, suggerendomi di mettercelo, li mandai a quel paese. Poi un giorno incontrai in Galleria a Milano l’autore dell’arrangiamento, Tony De Vita, che mi disse: non sai cos’è successo, abbiamo inciso la tua canzone e sul finale Mina s’è messa a piangere con gli orchestrali in piedi ad applaudire. Sarà un grande successo».

Queste parole colgono due aspetti essenziali del brano. La sua novità e l’interpretazione decisiva di Mina.

Che Gino fosse un artista nuovo si indovinava già dalla Gatta. Il cielo in una stanza suggellò il suo spirito trasgressivo. Non solo per la struttura della canzone, per la mancanza dell’inciso, anche per ciò che vi si raccontava. Cantare di un bordello nel 1960, di un rapporto sessuale «peccaminoso», non poteva certo passare inosservato. Invece Gino riuscì a dare poesia a quella stanza e al suo soffitto viola.

Poi Mina. Questo brano è stato cantato da molti, dal suo autore, che lo incise nel ’60, da Giorgia, da Franco Battiato, da Giusy Ferreri, da altri, ma la versione di Mina, la prima, resta inarrivabile. Per l’emozione e per la verità della sua voce. L’artista di Cremona cavò l’anima del brano. Perché Mina non era solo tecnica. Quella versione leggendaria fu il 45 giri più venduto del 1960.

Sapore di sale. Una delle canzoni più celebri di Gino Paoli

Erano gli anni Sessanta. Gli anni delle spiagge e del boom. Gli anni dei tormentoni estivi. Pinne fucile ed occhiali, Guarda come dondolo ecc. Nell’estate del ’63 andava forte Sapore di sale di Gino Paoli, arrangiata da Ennio Morricone. Il brano sarebbe diventato un classico della canzone italiana. Avrebbe accompagnato le estati di più generazioni.

Ma Sapore di sale non era proprio una canzone estiva, nonostante l’apparenza. Il brano era anche malinconico.

Sapore di sale

Sapore di mare

Un gusto un po’ amaro

Di cose perdute

Di cose lasciate

Lontano da noi

Dove il mondo è diverso

Diverso da qui.

Proprio per questo incontro di vacanza e di malinconia il brano è senza tempo.

Del resto il successo di Gino era accompagnato dalle inquietudini. Quelle inquietudini che lo avrebbero portato ad abusare dell’alcol. E che proprio in quell’estate del ’63, quando su ogni spiaggia girava Sapore di sale, lo portarono a tentare il suicidio.