Il Festival di Monterey, cittadina della California, si svolse dal 16 al 18 giugno, nel cuore del 1967.
Il ’67 fu un anno cruciale per il rock. Un anno ricco di fermenti.
Il 1° giugno vide la luce il Sgt. Pepper dei Beatles, icona del rock di massa. Un album che portava a tutti le novità musicali e sociali del tempo. I colori, la psichedelia, l’India, l’idea del concept, l’utilizzo creativo dello studio di registrazione. Sgt. Pepper dava l’avvio all’Estate dell’amore, di cui proprio il Festival di Monterey fu una vetta entusiasmante.
Nel ’67 vide poi la luce The Velvet Underground & Nico, un altro colosso del rock, di quello più oscuro e alternativo. Questo disco era quasi tutto ciò che non era il Pepper. Era radicalmente trasgressivo. Ed era metropolitano. Non aveva nulla dell’entusiasmo dell’Estate dell’amore. Un 33 intessuto di disperazioni notturne e di rock depravato.
Ma il ’67 fu il ’67 da subito. Infatti partì con il botto, il 4 gennaio, con l’esordio in 33 giri dei Doors di Jim Morrison.
Gli hippie
Nella prima metà dell’anno crebbe la controcultura degli hippie, che vide la sua massima fioritura proprio nell’Estate dell’amore, una stagione di raduni, tra pacifismo e trasgressioni gioiose. Gli hippie erano la punta di una gioventù che si opponeva alla tradizione. L’abbigliamento colorato, la libertà sessuale, un linguaggio nuovo, la marijuana e l’Lsd, la non violenza, lo spirito di aggregazione, un nuovo rapporto con la natura, i cibi alternativi. Proprio gli hippie e la loro controcultura furono i protagonisti dei festival rock di quei tempi, da Monterey a Woodstock, che nell’agosto del ’69 rappresentò l’ultimo volo di quella gioventù. Gli hippie erano l’anticonformismo gioioso e ottimista, l’avanguardia di un nuovo modo di sentire. Questi ragazzi fecero di San Francisco il loro centro.
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Il Festival di Monterey
Il Festival di Monterey fu una fotografia di quella stagione.
Gli artisti furono tanti. Da Simon e Garfunkel ai Byrds, dai Jefferson Airplane a Otis Redding, da Ravi Shankar ai Grateful Dead, dagli Who a tanti altri. E poi Janis Joplin e Jimi Hendrix, le cui esibizioni fecero entrare Monterey nella leggenda.
Tutti salirono sul palco gratuitamente, a parte Ravi Shankar. Il biglietto d’ingresso costava un dollaro. Quindi il concerto fu quasi gratuito. Il ricavato fu devoluto in beneficenza dagli organizzatori. Tra questi figurava anche Paul Simon del duo Simon e Garfunkel.
Monterey e Woodstock
Il Festival di Monterey non ha nulla da invidiare a Woodstock. Sono in molti a considerare il primo la prova generale del secondo. Ma la prova può essere più entusiasmante. Woodstock fu meno sorprendente. Perché quella cultura giovanile era ormai quasi istituzionalizzata. E poi a Woodstock si respirava una sottile nostalgia per ciò che stava finendo. Era il momento dei saluti. Era l’ultima festa. Monterey invece coglieva quella gioventù nel suo fulgore. Nella sua estate piena. A Monterey la disillusione e l’autunno erano lontani.
Janis Joplin
Quando domenica 18 giugno i Big Brother and the Holding Company salirono sul palco del Festival di Monterey a poche ore dalla loro prima esibizione, nessuno immaginava cosa stesse per accadere. La cantante della band era una certa Janis Joplin.
Janis veniva dal Texas. Vestiva colori e gioventù. Ma dietro quell’esuberanza si nascondevano tragedie e tragedie. La ragazza beveva bourbon e si drogava. Tra poco più di tre anni sarebbe morta di overdose, a pochi giorni dalla morte di Jimi Hendrix, l’altra leggenda del Festival di Monterey. I due sarebbero stati protagonisti anche a Woodstock, due anni dopo.
Quel giorno d’estate, quel 18 giugno, Janis Joplin smise di essere la cantante dei Big Brother e diventò Janis Joplin. La band era al servizio di quella voce celestiale. Quando attaccò la sua versione di Ball and Chain, la ragazza si trasfigurò. Tutti furono rapiti. Ormai non era più la Joplin a cantare. Infatti quella voce arrivava da qualche punto dell’universo, nonostante Janis muovesse le labbra. Un’intensità e un coinvolgimento totali, tra slanci rabbiosi e dolcezze. Eravamo ai vertici del blues bianco. Tutti restarono estasiati. Quella voce roca, ora aggressiva, ora malinconica, entrava dritta nelle leggende.
Jimi Hendrix
Jimi Hendrix, naturalmente, è il più grande chitarrista del rock.
È il più grande perché ha spinto quelle corde in territori prima inesplorati. Jimi era un talento puro. La chitarra non era per lui uno strumento. Piuttosto era un prolungamento del corpo. La usava come uno usa le mani. La suonava con i denti, con il palmo della mano. La portava dietro la schiena. La sua gestualità e le sue smorfie contribuivano a cavare da quello strumento sonorità inaudite. Ma erano anche fini a se stesse. Perché il rock è anche iconografia e leggenda.
Hendrix è uno spartiacque. Dopo di lui la chitarra elettrica non è stata più la stessa. Tutti sono stati influenzati dal genio di Seattle.
Per Jimi la chitarra era la rivalsa. Era una compagna. Ed era un simbolo erotico, con cui sul palco arrivava a mimare l’amplesso.
Hendrix spaziava dal rock al blues, dal jazz a qualsiasi cosa, come niente fosse. Con la naturalezza di uno che scrive il proprio nome su un pezzo di carta. Quella chitarra era capace di andare oltre la chitarra. A Woodstock, per esempio, simulò il suono dei bombardamenti, nell’interpretazione dell’inno degli Stati Uniti.
Jimi Hendrix era un simbolo di quella stagione ed era il rock. Entrò nell’immaginario. La naturalezza con cui faceva parlare le corde e la sua gestualità si accasarono per sempre tra le leggende.
Sul finire del Festival di Monterey
Sul finire di quei tre giorni, un semisconosciuto Hendrix salì sul palco del Festival di Monterey. La sua esibizione è una delle favole più belle del rock.
Alla fine di quell’esibizione, si sa, Jimi bruciò la sua chitarra. Da quel rogo uscirono gli ultimi suoni inauditi. L’Estate dell’amore era al culmine.