Era la sera del 3 marzo del 1930 quando Liliana Castagnola rientrò per l’ultima volta nella sua stanza della pensione napoletana. «Stasera, rientrando, un gattaccio nero mi è passato dinnanzi. E ora, mentre scrivo, un altro gatto nero, giù per la strada, miagola in continuazione. Che stupida coincidenza, è vero?» Queste le ultime righe che aggiunse sul foglio d’addio, prima che la morte la portasse con sé. Quando Totò lesse la lettera, la mattina, fu lì lì per crollare. Liliana aveva scelto la morte, ingerendo una quantità di sonniferi. L’esistenza di Totò fu segnata per sempre. Il dolore non lo avrebbe abbandonato. Il Principe fece seppellire Liliana nella cappella di famiglia. E avrebbe chiamato con quel nome sua figlia.
Totò e Liliana Castagnola
Era il dicembre del ’29 quando ebbe inizio quell’amore.
La Castagnola, attrice e ballerina, toglieva il respiro a tutti.
Era arrivata a Napoli, dove Totò spadroneggiava al Teatro Nuovo. La scintilla tra i due scoppiò subito.
Iniziò una storia chiacchierata. Le gelosie e i litigi non mancavano. Del resto lei aveva una mole di ammiratori. In più Totò non tollerava l’atteggiamento possessivo di Liliana. La donna aveva avuto varie storie. Ed era considerata una femme fatale. Eppure stavolta era perdutamente innamorata. Ma Totò non le dava la giusta considerazione. Così, quando lui accettò un contratto che lo avrebbe portato a Padova, Liliana si sentì ancora una volta trascurata. E ventiquattro ore prima della sua partenza maturò l’ultimo gesto. Fu un evento sconvolgente per Totò. I rimorsi non lo avrebbero lasciato.
Ma Totò le lacrime le aveva conosciute subito, dai primi respiri della sua infanzia povera e ribelle.
L’infanzia di Totò
Antonio De Curtis nacque un giorno di metà febbraio, nel 1898.
Il padre, Giuseppe, era un nobile decaduto. La madre, Anna, era rimasta incinta giovanissima. I due non si sarebbero sposati fino all’inizio degli anni Venti.
Il rione Sanità fu la scuola del piccolo Antonio. La povertà e gli scugnizzi Totò se li sarebbe portati dentro. Il suo cinema di risate sarebbe stato, sotto sotto, anche cinema di lacrime. La miseria e il freddo avrebbero nutrito l’arte del Principe. Che non avrebbe mai dimenticato, neanche negli anni della ricchezza.
Il piccolo Antonio gironzolava nel rione Sanità con i suoi quattro stracci messi insieme dalla mamma. La famiglia abitava al 109 di quel rione. Gli odori di quei muri freddi si incisero nell’anima di Antonio.
Negli anni dell’adolescenza il ragazzo cominciò a esibirsi nei teatrini.

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Roma
Nel ’22 la famiglia De Curtis, dopo il matrimonio di Anna e Giuseppe, si trasferì a Roma.
Qui Antonio trovò lavoro nella compagnia di Umberto Capece. Quello dell’umile Salone Elena fu il primo vero palco che scricchiolò sotto i passi di Totò. Il primo di una lunga serie.
Il ragazzo del rione Sanità, naturalmente, non veniva pagato. Ma aveva l’occasione, grazie a quelle farse, di prendere confidenza con le platee e con gli applausi. Gli spettacoli si reggevano su canovacci dati in mano all’estro degli attori. Così il futuro Principe della risata affinò le sue naturali doti d’improvvisazione.
I vestiti di Totò erano quelli di uno straccione. Le sue scarpe battevano Roma per chilometri, tra il teatro e la casa. Sembrava una follia. Eppure Totò, sotto sotto, era un re. Le sue aspirazioni erano quelle di un re. La convinzione e la fiducia gli permettevano di superare ogni ostacolo e ogni fatica. Totò, in cuor suo, era già Totò.
Un giorno di pieno inverno, stremato dal freddo, Antonio chiese a Capece qualche soldo, giusto per pagarsi il tram. Venne messo alla porta su due piedi. In fondo aveva solo chiesto qualche spicciolo per quelle sue esibizioni.
Quest’ingiustizia, lungi dal demoralizzarlo, lo rafforzò. Forse fu uno dei frangenti fondamentali della sua carriera. Il suo futuro era segnato, e non poteva essere Capece a deviare i binari del destino.
L’ascesa di Totò
Così Totò si rimboccò le maniche. Decise di darsi al varietà. Prese a esibirsi nei localini.
Quelle apparizioni occasionali piano piano cedettero il posto a cose più serie. Il ragazzo fu scritturato dal Teatro Ambra Jovinelli, poi dal Salone Umberto I. Lavorò in diverse compagnie. Si esibì nei caffè-concerto di tutta Italia.
La sua situazione economica migliorò, passando dai tempi dello Jovinelli, in cui aveva un laccio delle scarpe per cravatta, a quelli della seconda metà del decennio, quando cominciò a vestire in modo più elegante. Prendeva forma la sua arte, incentrata sull’improvvisazione, sui movimenti disarticolati, sui doppi sensi, sull’inventiva linguistica.
Erano tempi di grande eccitazione per Totò, quelli dell’ascesa, quelli in cui il successo non è ancora abitudine. Il teatro e quell’ebbrezza sarebbero restati nel cuore di Antonio. L’artista napoletano avrebbe conquistato una fama enorme con il cinema. Ma l’odore del velluto, le platee, quelle notti sospese tra povertà e successo imminente sarebbero stati tra le sue nostalgie più pungenti. Con la sua presenza, i pienoni erano assicurati e gli applausi erano scroscianti.
Tra avanspettacolo e rivista
Napoli lo rivolle. Il Teatro Nuovo lo scritturò.
Fu proprio al Teatro Nuovo, in una sera di dicembre del ’29, che gli occhi di Antonio e quelli di Liliana Castagnola si incrociarono per la prima volta.
Dopo il suicidio della Castagnola, Totò continuò nella sua ascesa al successo, con la morte nel cuore.
Negli anni Trenta e Quaranta, ormai accasato a Roma, a cominciare dal ’37, prese confidenza con il cinema, cercato da più di un produttore. Ma il successo del Principe era ancora legato al teatro. Negli anni Trenta diventò la star dell’avanspettacolo. Nel decennio successivo ebbe successo con la rivista. Ma Totò e Antonio sembravano due persone diverse. Il primo divertiva le platee, il secondo, lasciati nel camerino i panni e la faccia di Totò, tornava alle sue malinconie e ai suoi silenzi.
L’arte di De Curtis era ormai affinata, nel solco della commedia dell’arte. L’improvvisazione, lo sberleffo, la presa in giro del potere, la solidarietà nei confronti dei poveri, il sorriso sornione e malinconico sbattuto in faccia ai dispetti del destino. Il tutto senza volgarità. Su quei palchi, davanti a quelle platee entusiaste, l’infanzia povera di Antonio trovava il suo riscatto.
L’attore del rione Sanità non si tirò indietro neanche quando si trattò di ridicolizzare Mussolini e Hitler, ricavandone problemi seri. Riuscì a sfuggire a un arresto. Fu costretto a nascondersi. Ma non tradì mai il suo pubblico.

Le storie d’amore e la popolarità
Totò non resisteva al fascino femminile. Nei suoi spettacoli sceglieva sempre la bella di turno, a cui dedicava la serata. Aveva la fama di sciupafemmine.
Non resistette neanche al fascino di Diana Rogliani, molto più giovane di lui. Dalla relazione dei due nacque Liliana. Quel nome era il segno di un legame indistruttibile. Era anche il segno di un rimorso atroce.
Il matrimonio tra Antonio e Diana non fu facile, naturalmente. Lui era gelosissimo, e preda delle sue stranezze. Si separarono nel ’39, ma vissero insieme ancora per anni.
Nel ’52 Totò conobbe Franca Faldini, la sua ultima compagna, bellissima e giovane.
Dagli anni Cinquanta Totò si dedicò quasi esclusivamente al cinema. Era innamorato del teatro, ma il cinema era un’altra cosa in fatto di popolarità e di guadagno. Così il Principe della risata, acclamato sui palcoscenici, uscì da quei confini. Raggiunse una popolarità grandissima. Avversato spesso dalla critica, che lo avrebbe rivalutato dopo la morte, ottenne i consensi incondizionati del grande pubblico. Totò era un affare per i produttori. I suoi film costavano poco, venivano girati in poche settimane, e portavano nelle casse denaro a non finire.
Il cinema di Totò
Il cinema di Totò era questo, in due parole: la sua arte teatrale trasferita dietro la macchina da presa.
In realtà le cose non erano così semplici. Nel mondo del cinema c’erano orari diversi, e Totò non sopportava di lavorare la mattina. Così registi e colleghi si dovevano adattare alle esigenze di questo guitto del palcoscenico. Sul set non c’era il calore del pubblico, e la troupe doveva sopperirgli con applausi e reazioni quando la macchina si spegneva. Poi Totò non amava girare le scene più volte. Non era cosa da teatro. In più nel mondo del cinema non c’era lo scricchiolio del legno, non c’era l’odore del camerino. Insomma, il cinema non era il teatro. Nonostante questo, Totò, in qualche modo, riuscì a trasferire il suo avanspettacolo sul set. La trovata del momento, lo sberleffo, il linguaggio unico e tutto il resto restarono i tratti della sua arte.
Alcuni vertici di Totò
I copioni erano spesso di serie B. Ma questo non era un male. Anzi. Totò approfittava della mancanza di autonomia di quelle pagine per caricarle della sua arte e della sua comicità. Era un vero attore. A volte cambiava da solo le sorti del film.
Altre volte, invece, il film era già valido nel progetto. È il caso di Guardie e ladri del ’51, uno dei suoi più grandi successi, diretto da Steno e Monicelli. Per questa pellicola, che fu anche presentata a Cannes, Totò ebbe il Nastro d’argento. Guardie e ladri si inseriva nella nascente commedia all’italiana. Due poveruomini, separati da ruoli diversi, ma accomunati da un destino beffardo, che alla fine scelgono la fratellanza. La prima parte drammatica di Totò, qui ai suoi vertici cinematografici, favorito dall’intesa con Aldo Fabrizi.
Steno e Monicelli diressero Totò separatamente in altre occasioni, il primo puntando sulla maschera del comico napoletano, il secondo, sulla scia di Guardie e ladri, sulla sua capacità di umanizzare i personaggi. Monicelli volle Totò nei Soliti ignoti, il vero punto di partenza della commedia all’italiana, dove il guitto di Napoli recitò con Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman.
Negli anni Cinquanta, Totò e Peppino De Filippo diedero vita a una tra le più celebri coppie del nostro cinema. Da questo sodalizio e da questa intesa nacquero film di grande comicità che sarebbero diventati cult. Totò, Peppino e la… malafemmina, con la famosa scena della lettera, La banda degli onesti e così via.
Gli ultimi anni e la morte
Alla fine dei suoi giorni, Totò ricevette proposte di prestigio, e recitò, nel ’66, in Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini.
Da una decina d’anni viveva in una quasi totale cecità.
La notte tra il 14 e il 15 aprile del ’67, a sessantanove anni, nella sua casa di Roma, Antonio lasciò il mondo. Un infarto pose fine alla sua storia di dolori e di riscatti.
Totò non aveva mai dimenticato Napoli. E Napoli pianse a dirotto. Dopo le esequie romane, nel pomeriggio del 17 aprile, la salma giunse nella città partenopea per il secondo funerale. Il traffico fu fermato. Le serrande dei negozi furono abbassate. Ogni portone fu accostato. Centinaia di migliaia di persone si riversarono per le strade a salutare il loro scugnizzo. Nella basilica ci furono isterie e svenimenti.
Più tardi, a fatica, la salma di Totò raggiunse la tomba di famiglia, dove fu tumulata vicino ai genitori e a Liliana Castagnola.