Nevermind, l’album capolavoro dei Nirvana

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Sono pochi gli album che cavano l’anima di un’epoca come fa Nevermind dei Nirvana. Uscito nel settembre del ’91 per la Geffen, questo pugno di canzoni tirò fuori l’atmosfera grigia di quel decennio, il lato buio della generazione X.

Gli anni Ottanta erano finiti, portandosi via quelle estati e quella spensieratezza. Ora era il tempo della disillusione e dell’apatia. E il canto di Kurt Cobain era quanto di più apatico ci potesse essere. Era anche rabbioso. Ma era una rabbia che arrivava da lontano, dall’apatia e dall’indifferenza.

Quest’apatia rabbiosa è il primo degli ossimori che fanno la bellezza di questo disco. Un 33 di contrasti insanabili, sanati da quella voce indimenticabile. La rudezza e la melodia, l’immediatezza e la rifinitura, il rock pesante e le malinconie.

I Nirvana del dopo Nevermind, album di due anni prima
Kurt Cobain.
Foto di julio zeppelin da Flickr, CC BY-ND 2.0.

Nevermind, l’album con cui i Nirvana diedero voce ai tormenti di una generazione

I Nirvana non furono i primi a fare un grunge tendente al pop. Ma fu il grunge dei Nirvana a conquistare le masse e a portare il rock d’opposizione nel mainstream.

Gli anni Ottanta avevano condotto il rock per strade nuove, tra tecnologie e sintetizzatori. Ora c’era bisogno di un passo indietro. Questo passo indietro, il grunge, conquistò le folle con Nevermind.

Chitarra, basso, batteria. Senza trucchi. Quello di Kurt Cobain e compagni era rock. Rock vero. Che usciva dalle viscere. Quattro accordi. Pochi virtuosismi. A contare erano l’apatia e la rabbia che investivano e trasfiguravano quella semplicità musicale.

Nevermind guardava indietro e a un tempo guardava all’oggi. Sputava lo schifo e la noia che si annidavano nello stomaco di quella generazione.

La voce di Kurt era bellissima e dolente. La batteria di Dave Grohl e il basso di Chris Novoselic sembravano fatti apposta per accompagnare le tragedie di Kurt.

Le parole contavano fino a un certo punto. Le parole erano prima di tutto un pretesto per sputare quella voce. Era la voce il centro di tutto. Un canto che passava di continuo dall’intimità alle disperazioni urlate.

Tra le leggende del rock

Certo la morte di Kurt Cobain colorò di leggenda Nevermind e tutta l’arte dei Nirvana. Quel suicidio che ci colpì come una coltellata macchiò di sangue e di sincerità quelle canzoni. Era l’8 aprile del ’94 quando piangemmo. Avevo poco più di vent’anni, e ricordo quel giorno. Cobain aveva incarnato tutto il grigiore di quei tempi. Morì a ventisette anni, naturalmente. Come Jimi Hendrix e Janis Joplin. Come Jim Morrison. La sorte che aspettava anche Amy Winehouse.

Nevermind vendette dieci milioni di copie, e con il tempo l’album avrebbe superato di molto quei numeri. In particolare spopolarono i suoi singoli. Come As You Are, Lithium, In Bloom. E naturalmente Smells Like Teen Spirit, con quel video iconico. Smells Like Teen Spirit condensava gli umori di quegli anni.

I Nirvana provarono a salvare il rock facendo interagire l’energia con il talento melodico di Kurt Cobain.

Fondamentale fu anche la produzione di Butch Vig. Una produzione pulita che fece di Nevermind un classico da subito. In effetti la bellezza del 33 deriva anche dall’immobilità di quel rock immediato. È questo l’ultimo ossimoro di un disco leggendario.

A Nevermind i Nirvana fecero seguire un tour di successo. Proprio in una tappa del tour Kurt Cobain e Courtney Love si misero insieme, il 12 ottobre del ’91 a Chicago.