La morte di Kurt Cobain, la voce di una generazione

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La notizia della morte di Kurt Cobain arrivò come una coltellata. Era primavera. Era venerdì. Erano passati tre giorni dall’ultima notte di Kurt.

L’ultima notte di Kurt Cobain

Seattle. Martedì 5 aprile 1994. Notte piena. Casa Cobain. Vuota e fredda.

Kurt era pronto. Fumava.

Scrisse una lunga lettera d’addio.

Uscì di casa: perché non voleva macchiare di sangue e di morte il luogo dove l’adorata figlia Frances sarebbe vissuta. Portò il necessario: fucile, munizioni, foglio d’addio, sigarette, birra, il materiale per farsi. Aveva anche degli asciugamani.

Raggiunse la serra.

Si mise a sedere. A pensare. A ricordare. L’infanzia ad Aberdeen, la famiglia ancora unita.

Aggiunse qualcosa su quel pezzo di carta: «Per favore, Courtney, tieni duro, per Frances, perché la sua vita sia più felice senza di me. Ti amo. Ti amo».

Un goccio di birra, un tiro di sigaretta. Un altro goccio, un altro tiro.

Caricò il fucile.

Tolse la sicura.

Si iniettò una quantità d’ero che lo avrebbe ucciso in ogni caso.

Comunque, per sicurezza, mentre la vista si annebbiava, con le ultime briciole di lucidità, piantò l’arma sotto il mento.

La notizia della morte di Kurt Cobain

Il corpo sfigurato venne trovato l’8 aprile, la mattina. Fu visto da un elettricista che stava lì per installare un impianto di sicurezza.

L’uomo chiamò subito la polizia.

Non passò molto prima che il mondo seppe.

Restammo increduli.

Kurt Cobain, leader dei Nirvana, apostolo del nuovo rock, portabandiera di una generazione, aveva scelto la morte. Volò via a ventisette anni, come Jimi Hendrix, come Jim Morrison, come Janis Joplin.

Due anni e mezzo prima, l’apatia e la disperazione di una generazione avevano trovato la loro bandiera con Nevermind. Il grunge da classifica, l’hard rock vellutato, il punk melodico. Con questi ossimori e compromessi, i Nirvana avevano tenuto in vita il rock duro e avevano vomitato l’anima di quella generazione. Avevano dato voce alle periferie e avevano portato alla ribalta il grigiore senza futuro dei giovani d’inizio anni Novanta.

Kurt Cobain Memorial Park
Sotto il ponte caro a Kurt Cobain, nel Memorial Park di Aberdeen, aperto a diciassette anni dalla sua morte.
Foto di Hayley Zacha da Pixabay.

La reazione di Courtney Love

Courtney Love, che si trovava a Los Angeles, alla notizia della morte di Kurt Cobain restò distrutta.

Si strafece d’eroina.

Volò in fretta a Seattle.

Prese come macabro souvenir un pezzettino di testa del defunto, saltato via.

Nella veglia di domenica pomeriggio, venne fatto ascoltare un suo messaggio registrato. Courtney si scagliò contro Kurt, contestando molti punti del foglio d’addio, negando che «è meglio bruciare che spegnersi lentamente». Gli diede del coglione, e invitò la folla a fare lo stesso. Settemila persone gridarono «coglione».

Alla cerimonia privata, Courtney lesse in carne e ossa l’addio di Kurt Cobain. La Love era sconvolta.

Si chiudeva così una storia d’amore fatta di eccessi, liti, minacce. Un legame che però era stato indissolubile.

Il frutto più grande di questa storia era una bambina di un anno e otto mesi dagli occhi azzurri e limpidi.