Dario Bellezza nacque a Roma nel ’44. Roma restò l’unica città della sua vita. Ed è lo sfondo delle sue poesie dolenti.
Bellezza è stato il primo della nuova ondata di poeti emersi in Italia negli anni Settanta. Era stato un secolo esaltante per la lirica italiana. Un secolo di grandi nomi. Tra questi Sandro Penna. Proprio Penna e la sua indifferenza per le avanguardie erano un modello per Bellezza. Un altro suo faro era Pier Paolo Pasolini, che al debutto (Invettive e licenze del ’71) lo definì «il miglior poeta della nuova generazione». Ma i maestri restavano sullo sfondo.
Invettive e licenze colpì per la sua freschezza. Fu un urto in un certo senso rivoluzionario. Infatti, in un’epoca di avanguardie e di intellettualismi, quella poesia che guardava alla tradizione era anticonformista. Bellezza si affidava alla ricchezza del suo io, alla lievità del suo tocco. Ma la sincerità non escludeva la teatralità. Così scatti di enfasi e di sapienza musicale esaltavano il suo autobiografismo lirico e malato.
I libri successivi si muovono tra le coordinate individuate d’acchito all’esordio.
Dai versi di Dario Bellezza viene fuori una quotidianità vissuta tra malinconie e solitudini. Dove trovano spazio l’amore, la dannazione, le lacrime, la «diversità», la morte, il disordine, nello scenario di una Roma popolare. Un’opera dove si spazia dalla realtà più bassa ai destini dell’uomo.
Gli estri di questa poesia sono certo tra i vertici del secondo Novecento italiano.
Malato di Aids, Bellezza morì nel ’96 nella sua Roma e nella sua solitudine.
Tre poesie di Dario Bellezza
Forse mi prende malinconia a letto
se ripenso alla mia vita tempesta e di
mattina alzandomi s’involano i vani
sogni e davanti alla zuppa di latte
annego i miei casi disperati.
Gli orli senza miele della tazza
screpolata ai quali mi attacco a bere
e nella gola scivola piano il mio
dolore che s’abbandona alle
immagini di ieri, quando tu c’eri.
Che peccato questa solitudine, questo
scrivere versi ascoltando il peccatore
cuore sempre nella stessa stanza
con due grandi finestre, un tavolo
e un lettino di scapolo in miseria.
E se l’orecchio poso al rumore solo
delle scale battute dal rimorso
sento la tua discesa corrosa
dalla speranza.
*
Nella luce fioca mi lecco
le ferite mortali e la mia
anima-foglia leggera va
in cerca del Padrone.
Chi è nell’ombra solo sa
quanto il giorno è mortale
bianca statua solare
che non incanta più la mia
morta mattina.

Foto di Massimo Consoli, CC BY-SA 2.5 IT.
Roma 1989
È avventizio il mio essere reale.
Sleale è insistere su chi sono io.
Il punto di partenza è scontato –
l’arrivo è certo nello stato
attuale: morte come sostanza
o strato finale di un cuore malato.
Oh, vorrei rinascere, ritornare indietro
ma non posso. Troppo ho peccato
di peccati non miei, attribuiti
a posteri, mancati inganni.
Cerco amori nuovi, violente sere.
Perdono chiedo a chi non amai.
Forse verrò domani ad un prato
verde, – e non sarò più solo.