Le poesie di Patrizia Cavalli

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Le poesie di Patrizia Cavalli strizzano l’occhio sia alla contemporaneità che alla tradizione.

La Cavalli non è uno di quei poeti che, per salvaguardare a tutti i costi la purezza della poesia, rifiutano il linguaggio contemporaneo. Questi poeti sono prigionieri di un mondo autoreferenziale, nostalgico. La loro non è poesia viva. È piuttosto un esercizio. D’altra parte la Cavalli non è nemmeno di quelli che, pur di avvicinare la poesia al pop, la sviliscono, la riducono a un discorso banale dove ogni tanto si va a capo.

La bellezza delle poesie di Patrizia Cavalli sta nel suo non cadere mai né nell’esercizio né nella banalità.

Per riposarmi

mi pettino i capelli,

chi ha fatto ha fatto

e chi non ha fatto farà.

Dietro la bottiglia

i baffi della gatta,

le referenze

le darò domani.

Ora mi specchio

e mi metto il cappello,

aspetto visite aspetto

il suono del campanello.

Occhi bruni belli e addormentati…

Ma d’amore

non voglio parlare,

l’amore lo voglio

solamente fare.

La musicalità del quotidiano

È incantevole la naturalezza di quell’equilibrio di normalità e poesia. Che in realtà è complesso. Ché la bellezza non è mai né complessità né semplicità. La bellezza è sempre complessità ridotta a semplicità.

Quante tentazioni attraverso

nel percorso tra la camera

e la cucina, tra la cucina

e il cesso. Una macchia

sul muro, un pezzo di carta

caduto in terra, un bicchiere d’acqua,

un guardar dalla finestra,

ciao alla vicina,

una carezza alla gattina.

Così dimentico sempre

l’idea principale, mi perdo

per strada, mi scompongo

giorno per giorno ed è vano

tentare qualsiasi ritorno.

Quell’equilibrio è raggiunto facendo interagire la colloquialità e gli oggetti umili con una musicalità dal sapore antico. I frequenti endecasillabi nobilitano la quotidianità di questi versi.

L’incontro di tradizione e leggerezza sta poi nelle rime (anche al mezzo) usate spesso in modo ironico.

E poi la cosa più stupefacente

è che noi siamo parenti del niente,

tutti, tutti, sì, dimmi di no

fammi il piacere dillo, tanto per sentirlo,

dimmi che questo niente è titolato,

pari di Francia, sapiente della Chiesa,

agente immobiliare ormai insediato

al centro storico o in qualche via adiacente.

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Le poesie di Patrizia Cavalli tra discorsività e pathos

In più. Quella discorsività prima o poi s’imbatte in momenti cristallini. Frammenti di dolore, d’amore, di smarrimento esistenziale si intromettono nella normalità di quel lessico e di quella sintassi, tra gli oggetti umili di quella poesia, acquistandovi forza per contrasto. Gli squarci di lirismo arrivano inattesi, senza preavviso, stupendo il lettore. Che rimane sempre in bilico tra l’ovvietà del discorso e la vertigine di un grumo di versi. È come se Patrizia Cavalli cominciasse a scrivere le sue poesie senza sapere in quale emozione inciamperà, sicura che prima o poi s’imbatterà in uno stupore, in una nostalgia, in un frammento di verità, in un brivido di paura.

E i suoni ampi e lontani

non aprono il mattino

diversità del fuori,

ma sono lo spavento

del giorno e dei rumori.

Patrizia Cavalli è morta il 21 giugno del ’22. È stato un giorno triste. Era l’inizio dell’estate. Eppure io sentivo freddo. La prima volta che lessi una sua poesia avevo vent’anni. Patrizia era ancora giovane.