La morte di John Lennon. 8 dicembre 1980

Al momento stai visualizzando La morte di John Lennon. 8 dicembre 1980

Mark Chapman era un ragazzo nato nel mezzo degli anni Cinquanta a cui la vita apparentemente non aveva sorriso. Grassoccio e imbranato, era stato la preda facile dei compagni. Aveva adorato i Beatles, e soprattutto la sua futura vittima, John Winston Lennon. Ma John, nella mente del giovane, si era macchiato di una colpa gravissima. Non era più il rivoluzionario, ma l’artista che, premiato da fama e dollari, aveva ceduto alle lusinghe del mondo prima combattuto. Come poteva abitare nel Dakota Building di New York? Per Mark Chapman, John Lennon andava mandato a morte. Questo pensava Mark. E fu questo ragazzo folle a decidere che l’ex Beatle non meritava di proseguire nell’avventura terrena.

Muro di John Lennon
Il Muro di John Lennon a Praga.
Foto di evag da Pixabay.

Una mente folle

Compiuto il gesto omicida, Mark pareva tranquillo, appoggiato sul muro del Dakota Building, a leggere il suo Holden.

Era entrato nella leggenda, seppure con un ruolo non proprio encomiabile. Ora il suo volto contava. Aveva consumato la vendetta, verso il Beatle traditore e verso i vecchi compagni che lo avevano schernito ma che, oggi, stavano ancora nell’ombra della storia.

Forse un giorno Mark uscirà. Ma, si dice, ad attenderlo c’è una morte sicura. La morte di John Lennon non è cosa che si dimentica facilmente. Anche in carcere Mark ha dovuto sopportare la solitudine, tenuto lontano da tutti nel timore di una rivalsa omicida, che, neanche a dirlo, sarebbe il massimo dell’ingiustizia.

Ma come andarono le cose quell’8 dicembre del 1980? Ormai lo sanno anche le pietre. Comunque sia, riepiloghiamo i fatti.

La morte di John Lennon e la follia di Mark Chapman. L’incontro di due destini

Mark, maturata la decisione di uccidere John Lennon, comprò una calibro 38.

Fece più di una perlustrazione nei pressi del Dakota Building.

Dopo giorni passati a New York, arrivò quello del destino.

Quando quel giorno uscì dal palazzo, John s’imbatté in questo giovanotto. Gli firmò una copia di Double Fantasy. Venne immortalato con il suo futuro carnefice da un anonimo fotografo. Si avviò in studio. Poi, al rientro, tra le 22 30 e le 23 00, davanti alla residenza, Mark lo chiamò e lo colpì con quattro pallottole alla schiena. Qualche passo di John. Poi la violenza fece l’implacabile effetto. L’ex Beatle si accasciò. Mormorò qualcosa («Mi hanno sparato»). Il custode del palazzo chiamò in fretta la polizia, che giunse in un battibaleno. Una volante trasportò John in ospedale. Ma non c’era più niente da fare.

L’autore di Imagine ci aveva lasciato. Yoko era sconvolta. Il piccolo Sean capiva e non capiva. La notizia colpì al cuore il mondo.

Lo spazio antistante il Dakota fu invaso da giovani in lutto.

Le vendite dei dischi di Lennon, nelle settimane seguenti, ebbero un’impennata.

Tra cinque mesi sarebbe morto anche Bob Marley.

Gli anni dopo

La morte di John Lennon, naturalmente, sconvolse il mondo.

Mark David Chapman fu condannato da un minimo di vent’anni al massimo dell’ergastolo.

A partire dal 2000, si è visto rifiutare più volte la libertà vigilata, anche per l’opposizione decisa di Yoko Ono, che si è sempre detta spaventata della libertà di un uomo potenzialmente pericoloso.

Mark Chapman, in più di un’occasione, si è scusato con Yoko Ono e ha definito spregevole ciò che ha fatto.

Più volte è stato esaminato dagli psichiatri. Mark, nella sua follia, prima dell’omicidio, interagiva nella sua mente con un gruppo di ometti, ai quali rivelò la sua intenzione di uccidere John Lennon. Questi ometti scongiurarono il «signor Presidente» di non farlo. Mark rispose che doveva, che la sua mente era in fermento. Il «piccolo popolo» allora non disse niente.

Mark, in un’intervista del 2000: «Ero un nulla totale e il mio unico modo per diventare qualcuno era uccidere l’uomo più famoso del mondo, Lennon». Poi: «La cosa che mi faceva imbestialire di più era che lui avesse sfondato, mentre io no. Eravamo come due treni che correvano l’uno contro l’altro sullo stesso binario. Il suo tutto e il mio nulla hanno finito per scontrarsi frontalmente. Nella cieca rabbia e depressione di allora, quella era l’unica via d’uscita. L’unico modo per vedere la luce alla fine del tunnel era ucciderlo».