«Libertà» è la parola che più di tutte ci parla della storia e delle canzoni di Piero Ciampi.
Piero nacque a Livorno nel settembre del ’34, in faccia al porto e al suo destino di vagabondo. Terre e storie lo attendevano.
In seguito al bombardamento del ’43, si rifugiò con la famiglia nel pisano.
Verso i vent’anni aveva già individuato la sua strada. Cominciò a cantare con i fratelli in localini d’occasione. Cominciò anche a lavoricchiare. Intanto beveva.
Durante il militare s’imbatté in Gianfranco Reverberi.
Nel ’57 non resistette al fascino di Parigi, città di poeti maledetti e di storie malinconiche. Naturalmente vi arrivò senza una lira e senza progetti.
Si arrangiava come poteva, tra le vie romantiche di Parigi. In qualche localino cominciò a cantare i suoi versi musicati. Versi che scriveva qua e là, dove capitava. Chissà quanti ne andarono persi.
Piero si alcolizzò definitivamente.
Com’è bello il vino
Rosso rosso rosso
Bianco è il mattino
Sono dentro a un fosso.
E in mezzo all’acqua sporca
Godo queste stelle
Questa vita è corta
È scritto sulla pelle.
Così avrebbe cantato tra qualche anno.
Piero patì la fame. Fece vita da clochard. Scoprì Georges Brassens. Conobbe Céline. Lo chiamavano «l’italianò». Quel nome, italianizzato, Ciampi lo avrebbe utilizzato per le sue prime pubblicazioni.

Le pubblicazioni
Tornato in Italia alla fine dei Cinquanta, anche grazie a Reverberi, incise vari 45 giri. Pubblicò l’album Piero Litaliano per la Cgd nel ’63. Scrisse brani per altri. Si alternavano un Ciampi ancora acerbo e francese e le prime luci dei capolavori futuri.
Ma il successo non era la sua strada. Perso tra le nebbie dell’alcol, con una vita privata instabile (un matrimonio alla spalle e un altro disastroso che lo attendeva), Piero viaggiò per l’Europa, tra l’Irlanda e la Svezia, tra la Spagna e chissà quali terre. Tra espedienti e notti al freddo. Chissà quante storie avrebbe potuto raccontare, se fosse arrivato alla vecchiaia.
All’inizio dei Settanta, anche grazie all’interessamento di Gino Paoli, tornò a pubblicare. Incontrò Gianni Marchetti, che prese a musicare i suoi versi. Piero Ciampi scrisse le sue canzoni capolavoro e pubblicò i suoi album migliori. A cominciare dal 33 omonimo del ’71. Poi Io e te abbiamo perso la bussola del ’73 e Dentro e fuori del ’76, intervallati dalla bella antologia del ’75, Andare camminare lavorare e altri discorsi, contenente due inediti. Ma, al di là della stima di alcuni colleghi, tra cui Ornella Vanoni e Nada, il suo nome faticò a uscire dall’underground. Anche perché Piero non era capace di scendere a patti con l’industria dello spettacolo. Era un artista romantico, dopotutto. E a questo dobbiamo la bellezza e la singolarità del suo canzoniere.
Piero morì a quarantacinque anni, all’inizio del nuovo decennio, per un cancro all’esofago.
Le canzoni di Piero Ciampi tra i pilastri del cantautorato
Piero Ciampi è tra i padri e tra i massimi esponenti della canzone d’autore italiana. E uno dei suoi più intensi poeti. Una poesia, quella di Ciampi, scabra, secca, da uomo di mare. Versi che traggono la loro forza dalla sincerità. Diciamo anche che il valore del suo canzoniere è disuguale. Ma quella manciata di capolavori basta. Sporca estate, L’amore è tutto qui, Il merlo, Il giocatore, Livorno, Il vino, Tu no, Ha tutte le carte in regola, Te lo faccio vedere chi sono io, In un palazzo di giustizia, Io e te, Maria, Andare camminare lavorare, Sul porto di Livorno, Adius e qualcos’altro.
Piero Ciampi è tra i padri della nostra musica d’autore perché è arrivato prima di tanti. Per strade sue, nonostante gli scarsi contatti nell’ambiente. E, a dispetto della sua posizione appartata, ha influenzato gli sviluppi del cantautorato. Per quel suo mettere in modo deciso la poesia al servizio della canzone. Per quel suo opporsi senza compromessi alla tradizione canzonettistica.
L’accoppiata Gianni Marchetti-Piero Ciampi
Ciampi amava più la poesia della musica. Nonostante questo, le sue canzoni sono canzoni. I suoi versi chiedono, per compiersi, l’appoggio della musica. Ma la musica dei suoi brani capolavoro, quelli degli anni Settanta, non è solo appoggio e amplificazione. Quella musica infatti precisa e arricchisce la poesia.
Piero Ciampi collaborò sempre con il compositore Gianni Marchetti, nel decennio in questione. L’accoppiata Marchetti-Ciampi è una delle più riuscite della canzone italiana, che non ha nulla da invidiare ad altre collaborazioni storiche di quegli anni come Battisti-Mogol. Gianni Marchetti, genio incompreso come Ciampi, con le sue musiche in bilico tra folk, jazz, malinconie, ironia, segue come meglio non si potrebbe le parole di Piero. Versi e musica si compenetrano e si compensano.
Se i due si incontrarono per caso, all’inizio di quel decennio d’oro, ebbero però il merito di riconoscere la perfezione di quell’incontro e di non separarsi più.
Te lo faccio vedere chi sono io, una delle canzoni simbolo di Piero Ciampi
La musica di Gianni Marchetti non è solo capace di andare appresso ai movimenti dell’anima di Ciampi. È anche capace di tirarli fuori. Si prenda Te lo faccio vedere chi sono io, capolavoro di satira, autoironia e malinconia sottile:
Una regina come te in questa casa?
Ma che succede?
Ma siamo tutti pazzi?
Ma io adesso sai che cosa faccio?
Che ore sono? Le undici?
Io fra, guarda, fra cinque ore sono qua
E c’hai una casa con quattordici stanze
Te lo faccio vedere chi sono io.
[…]
Senti, intanto però c’è un problema
Siccome devo uscire
Mi puoi dare mille lire per il tassì
In modo che arrivo
Più in fretta a risolvere
Questo problema volgare che abbiamo?
[…]
Ma che cosa ti avevo detto, una casa?
Ma io sai che cosa faccio?
Ma io ti compro un sottomarino
Perché?
Se qui davanti a casa nostra quelli c’hanno la barca
E rompono le scatole
Io ti compro un sottomarino
Così, sai, li fai ridere tutti, questi, hai capito?
Intanto facciamo una cosa
Che fra cinque ore sono qua
Tu metti la pentola sul fuoco
Ci facciamo un bel piatto di spaghetti al burro
Mentre aspettiamo il trasloco
Poi ci ficchiamo a letto e te lo faccio vedere chi sono io
Ti sganghero
Te lo faccio vedere chi sono io.
In questa canzone Piero si prende in giro per la sua incapacità di affermarsi socialmente. Soprattutto investe con la sua satira i miti vuoti della società, l’arrivismo, l’apparenza, le inutili ricchezze. Eppure, sotto sotto, Ciampi è malinconico. La sua storia di libertà ha un prezzo. Quello della povertà e dell’esclusione sociale. E questo prezzo può strappare una lacrima. Una lacrima che s’insinua in quel destino irreparabile di solitudine e di precarietà, dove possono riemergere, dai fondali di quella bohème, antichi sogni di «normalità». Questa sfumatura malinconica, che è impercettibile tra quei versi intessuti di satira e di autoironia, viene cavata proprio da Gianni Marchetti, con quei momenti musicali carichi di lacrime e di rassegnazione commossa.

L’oralità e la voce cupa di Piero Ciampi
Te lo faccio vedere chi sono io mette in luce, oltre al decisivo apporto musicale di Marchetti, l’altro aspetto che fa di queste poesie in musica delle canzoni compiute. Il canto. Un canto basato sull’oralità e sull’improvvisazione, che finiscono per lasciare in sottofondo la parola scritta. Che quasi viene ridotta a pretesto per la teatralità interpretativa. Questa capacità d’improvvisazione è portata al massimo grado in Te lo faccio vedere chi sono io, ma caratterizza tutte le canzoni di Piero Ciampi.
A questo si aggiunga la particolarità e la bellezza della voce, riconoscibile se altre mai. Una voce roca, profonda, sporca, carica di un destino tragico. Incupita da secoli di vino e di fumo. Disse una volta Paolo Conte che «la sua voce era già un fatto». In effetti Piero avrebbe potuto cantare qualsiasi cosa. Se la bellezza delle sue cose deriva dalla poeticità delle parole e dalla musica di Gianni Marchetti, deriva forse ancora di più da quella voce. E da quell’oralità. Un’oralità che toglie Ciampi da uno studio di registrazione e da un palco e lo mette a tu per tu con l’ascoltatore.
Andare camminare lavorare e l’ipocrisia della società
La satira emerge in varie canzoni di Piero Ciampi. Ed è dissacrante e ispiratissima in Andare camminare lavorare, altro episodio iconico del canzoniere. Il cantautore livornese irride i miti dei nostri tempi e le ipocrisie della società. Che finge felicità per nascondere l’infelicità. Che punta sul lavoro e sul progresso per nascondere il vuoto. Ciampi scaglia la sua satira contro i riti sociali che rivelano solo la paura di stare soli. Contro l’ipocrisia della giovialità, sotto cui vivono le invidie e l’antagonismo. Piero non scorge nulla di autentico intorno a sé. Andare camminare lavorare non è screziata, diversamente da Te lo faccio vedere chi sono io, da malinconie e rimpianti. Qui c’è la fierezza della propria solitudine, della libertà, dell’affrancamento dai modelli sociali, dell’autenticità. È un Piero, quello di Andare camminare lavorare, che non rinuncerebbe mai alla sua bohème e alle sue tragedie, tanto disprezza quelle ebbrezze collettive e ipocrite.
Livorno
La malinconia e il rimpianto fanno invece capolino in altri punti del canzoniere, a cominciare da Livorno e Sul porto di Livorno. Piero, nel suo vagabondare per l’Europa, nel suo vivere di espedienti, nel suo stare nudo in mezzo al mondo, non ha mai dimenticato la città della sua infanzia, il suo porto, le sue lampare. Un antico rifugio in mezzo a tante tempeste, ricco di calore, di ricordi, di memorie familiari. Ma forse in quel porto, tra quei profumi di mondi lontani, il piccolo Piero già scorgeva i suoi destini di vagabondo.
Oltre l’autobiografia
Le canzoni di Piero Ciampi sono autobiografiche. Ma a un tempo vanno oltre l’occasione autobiografica. Investono la società e i suoi riti, mettono in scena il dolore, la libertà, il faccia a faccia con la morte. Canzoni come Il vino e Ha tutte la carte in regola sono tra le cose più alte della nostra canzone d’autore.
Ha tutte le carte in regola
Per essere un artista
Ha un carattere melanconico
Beve come un irlandese.
Se incontra un disperato
Non chiede spiegazioni
Divide la sua cena
Con pittori ciechi, musicisti sordi
Giocatori sfortunati, scrittori monchi.
Ha tutte le carte in regola
Per essere un artista
Non gli fa paura niente
Tantomeno un prepotente.
Preferisce stare solo
Anche se gli costa caro
Non fa alcuna differenza
Tra un anno ed una notte
Tra un bacio ed un addio.
Questo è un miserere
Senza lacrime
Questo è il miserere
Di chi non ha più illusioni.
Ha tutte le carte in regola
Per essere un artista
Detesta lavorare
Intorno a un parassita.
Vive male la sua vita
Ma lo fa con grande amore
Ha amato tanto due donne
Erano belle, bionde, alte, snelle
Ma per lui non esistono più.
È perché è solo un artista
Che l’hanno preso per un egoista
La vita è una cosa
Che prende, porta e spedisce.
Un’arte che non scende a patti
Ancora oggi c’è qualche resistenza nell’inserire Ciampi tra i pilastri della parola cantata. Perché il cantautore livornese è uno schiaffo alle norme sociali. Piero può sconcertare. La sua arte non scende a patti.
E Piero non scese mai a patti neanche con l’industria della canzone, geloso della sua libertà. Era un artista vero, che mal si districava nei commerci, negli impegni, nel marketing. Sperperava l’anticipo di un contratto senza incidere niente. Saliva sul palco ubriaco. Non gli furono date molte occasioni. Ma quelle poche Piero le buttò via. Senza rimpianti. Perché era un artista, di quelli romantici. Questo può sembrare un limite a chi non ha confidenza con l’arte. Ma per Ciampi, che era Ciampi, gli impegni e il commercio erano un problema volgare.
In più c’è da dire che queste canzoni, anche oggi, con la figura di Piero sempre più rivalutata, hanno poche possibilità commerciali. Senza melodie, senza qualcosa che sappia di pop, con il loro anticonformismo estremo, con quella voce sporca e strascicata, restano destinate alle élite. E in questo sta il loro fascino.
La compassione nelle canzoni di Piero Ciampi
«Piero», disse una volta Pino Pavone, un altro suo collaboratore, «era un generoso che si spendeva per gli altri. Anche se sconosciuti. Come quella volta che raccattò e offrì una stanza d’albergo a un povero ragazzo di colore che era stato picchiato. Il giorno dopo lasciò il conto intestato a mio padre, che quando saliva da Catanzaro a Roma alloggiava sempre in quell’albergo.» Questa compassione nei confronti degli emarginati Piero Ciampi la metteva anche nelle canzoni. In effetti, se il cantautore livornese parla di sé e delle sue storie, dietro il suo volto si nascondono tutti i volti incrociati nei sotterranei del mondo. Dietro quei brani si intravede tutta una folla di persone in lotta con un destino beffardo, cariche di umanità.