Aspettando Godot di Beckett

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La trama di Aspettando Godot, dramma capolavoro di Beckett, non porterà via molto spazio. Perché lo svolgimento dei fatti è pressoché inesistente. In realtà quella trama è pesantissima. È questo il primo ossimoro di un’opera che ha rivoluzionato il teatro e che ha segnato un apice della letteratura del Novecento. La presenza dell’assenza.

La trama di Aspettando Godot

Estragone e Vladimiro sono due vagabondi, vestiti alla meno peggio. A uno puzzano i piedi, all’altro puzza l’alito. Stanno ai piedi di un albero, in una strada di campagna. Stanno lì perché deve arrivare Godot. Chi è costui? Non lo sanno nemmeno loro. Non lo hanno mai visto. Ma di certo sanno che il suo arrivo cambierà tutto.

L’appuntamento è ai piedi di quell’albero. La scena è nuda. La pianta, Vladimiro, Estragone e le loro parole senza senso, intervallate da silenzi irreali. I due parlano di niente, ma quel niente gli sembra sensato.

In mezzo a questa immobilità, a un certo punto passano Pozzo e Lucky. Il primo è un proprietario terreno, il secondo è il suo servo. Pozzo tiene legato Lucky. Quel legame è asfissiante anche per il padrone, che non potrebbe vivere senza essere schiavista. Così anche Pozzo è schiavo. Schiavo della sua necessità.

L’immobilità dell’opera è potenziata da questo. Il secondo atto è uguale al primo.

In realtà nel secondo atto qualcosa cambia. Sull’albero sono spuntate delle foglie. In più Pozzo e Lucky, che passano di nuovo di lì, sono diventati l’uno cieco e l’altro muto. Quindi il tempo passa. Ma sembra che non passi, perché le parole di Vladimiro ed Estragone, nella loro banalità, si assomigliano tutte.

Sulla scena, sia nel primo che nel secondo atto, appare un ragazzo. Lavora per Godot. In entrambi i casi informa Vladimiro ed Estragone che Godot non può venire e che verrà l’indomani. Alla luce di quest’attesa, i discorsi dei due vagabondi, se discorsi li possiamo chiamare, sono davvero insignificanti.

Beckett, autore di Aspettando Godot
Samuel Beckett a più di vent’anni dalla prima di Aspettando Godot.

Armonia di contrasti

Beckett porta sulla scena tutta l’insignificanza dei nostri problemi, delle nostre consuetudini, delle convenzioni sociali. Quell’insignificanza riempie il teatro. La sentiamo sotto la pelle. Solo Godot può colmare quel nulla. Ma non arriva. Non arriva oggi, non arriva domani.

Beckett cambia le regole del teatro. Il movimento e la scenografia sono pressoché assenti. Il grande protagonista, Godot, non appare.

Un altro aspetto di questo capolavoro è l’intreccio perfetto di tragedia e comicità. Vladimiro ed Estragone, nel loro vuoto esistenziale, ci fanno ridere, aggrappati ai loro piccoli problemi senza senso.

Capolavoro del Teatro dell’assurdo, Aspettando Godot non ha niente di assurdo, a prima vista. Anzi è tutto così banale e normale. Due uomini ne aspettano un altro, e intanto ammazzano il tempo. Ma quella normalità contiene tutto l’assurdo della nostra vita, delle nostre consuetudini, dei nostri piccoli problemi. Solo Godot darebbe un senso a tutto, se riuscissimo a incontrarlo.

Questo dramma è un’armonia di contrasti. Presenza e assenza. Tragedia e comicità. Normalità e assurdità.

Su quel palco non accade niente. Eppure accade tutto. In quel niente c’è tutta la nostra condizione esistenziale. Con Aspettando Godot Beckett porta in scena uno degli ossimori più belli del Novecento. In quell’immobilità, in quell’assenza di un qualsiasi sviluppo, potremmo stare ore e ore senza annoiarci.

Il geniale diversivo di Beckett

Come scrive Bair nella sua biografia, «Beckett, che non aveva allora alcuna idea delle tendenze teatrali del tempo, considerò lo scrivere per il teatro un meraviglioso e liberatorio diversivo». In effetti il grande drammaturgo era allora impegnato con i suoi romanzi della trilogia. Ma proprio perché considerava il teatro un diversivo ed era all’oscuro delle sue tendenze poté aggredire i suoi istituti con quell’urto rivoluzionario.

Il tormento e la speranza

Con Aspettando Godot, scritto alla fine degli anni Quaranta, pubblicato nel ’52, Beckett cavava, dopo due guerre mondiali, lo sgomento e l’inquietudine dell’uomo del Novecento. Ma ne tirava fuori anche l’insopprimibile speranza, che forse è più viva nello sgomento. Perché, se Godot non l’abbiamo incontrato, forse l’incontreremo. Nel terzo atto. Nel quarto. Un giorno. Intanto aspettiamo, ai piedi di quest’albero. Perché Vladimiro ed Estragone siamo tutti noi.

Ecco, il tormento e la speranza, l’ultimo ossimoro di questo capolavoro.

La prima di Aspettando Godot

La prima rappresentazione del dramma aveva già il sapore della leggenda. Era il 5 gennaio del ’53. La città, nemmeno a dirlo, era Parigi, luogo di malinconie e di inquietudini se altri mai. Di lì, nell’ultimo secolo, erano passati fermenti e avanguardie, tra arte e letteratura. Anche quella sera, quel 5 gennaio del ’53, era nell’aria qualcosa di nuovo. Aspettando Godot avrebbe rivoltato la tradizione del teatro, e la sua modernità avrebbe nutrito gli autori fino a oggi.

A ospitarlo era il Theatre de Babylone. Questo teatro era un vecchio locale ristrutturato. Vi erano stati piantati un palco e una piccola platea. Il pubblico era curioso ed eccitato. L’attesa era dovuta anche alle difficoltà incontrate dall’opera. Si sa, le rivoluzioni sono bestemmie, in un primo tempo.

Sulle tavole del palco era stato messo un attaccapanni ricoperto di carta, che faceva da albero. La sua base era nascosta da un pezzo di gommapiuma recuperato per strada. Un altro tassello da consegnare alla leggenda erano i proiettori, tre bidoni riempiti di lampadine.

Da quell’organizzazione di fortuna, da quell’inverno parigino del ’53, il dramma fece molta strada, dentro e fuori la Francia, anche grazie ai teatrini di periferia, che contribuirono a diffonderlo. Finché Aspettando Godot uscì definitivamente dalla poesia dell’underground e riempì i teatri di tutto il mondo.