Amarcord, il film più poetico di Fellini

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Con il mondo sognato di Amarcord, Fellini, in un certo senso, nel ’73 portò sugli schermi un film realista.

Disse una volta il regista romagnolo che «l’unico vero realista è il visionario» (leggi le frasi di Fellini). Nel senso che l’oggettività è legata alla soggettività. La realtà esterna non è autonoma. Non è vitale. Ma prende vita dall’incontro con l’individuo. Dall’incontro con la sua immaginazione e con i suoi ricordi. In questo senso Amarcord è un film realista. Perché è sempre la realtà interiore che plasma e colora i luoghi, i volti, le situazioni.

Con questo capolavoro il grande regista rievoca la Rimini della sua adolescenza. E lo fa nell’unico modo possibile. Attingendo dalla sua immaginazione, dai suoi miti, dalla sua nostalgia.

Amarcord, uno dei film più belli di Fellini
Una scena di Amarcord, uno dei film più belli di Fellini.

Amarcord, il film più poetico di Fellini

Il regista non girò nemmeno una scena a Rimini. Ricostruì la sua città altrove. Prendendo a piene mani dall’anima. Così quel luogo e quel tempo diventarono universali. Perché restituiti attraverso la lente dell’uomo.

Quei giorni di scuola, le parate fasciste, i primi impulsi erotici, la parrucchiera sognatrice Gradisca, lo zio matto, quei pranzi, la tabaccaia formosa sono situazioni e figure che appartengono alla memoria di ognuno di noi. Così come il quartiere che si ritrova riunito, per il passaggio del transatlantico Rex o per le nozze e la partenza di Gradisca.

Il tratto dominante di questo capolavoro è la nostalgia per un mondo e per un’età persi per sempre.

Fellini aveva un rapporto di odio e di amore con Rimini. Da una parte il provincialismo, la ristrettezza di quegli orizzonti. Dall’altra un patrimonio di memorie familiari e giovanili. In Amarcord prevale la malinconia per quelle lontananze irrevocabili. Una malinconia sottolineata dalle musiche di Nino Rota.

Amarcord ebbe l’Oscar per il miglior film straniero, il quarto di Federico Fellini. Il quinto sarebbe stato alla carriera.

Con le sue pellicole il regista romagnolo ha rinnovato i vocabolari. Si pensi per esempio alla parola «paparazzo», presa dalla Dolce vita. Ma è la parola «amarcord» la più bella e poetica. Univerbazione di «a m’arcord» («io mi ricordo»), sta a indicare un ricordo malinconico, una rievocazione nostalgica del passato.