Chet Baker. Sprazzi di una biografia inquieta

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La storia di Chet Baker è a metà strada tra la biografia e il romanzo. Le storie e gli aneddoti legati al suo nome sono innumerevoli. Chet era nato per la leggenda.

Chet era il contrario di Miles Davis, per certi versi. Trombettista geniale il primo, genio con la tromba il secondo. Entrambi fatti per il jazz, per le leggende, per i tormenti. Per le risse, per le notti, per i vizi mortali soddisfatti nei bagni di locali infimi. Entrambi fatti per la sporcizia e per la bellezza.

Baker era un nomade.

Baker lavorò in una pompa di benzina, per sopravvivere, negli anni in cui non poteva suonare per i denti persi, si dice, in una rissa con gli spacciatori. Dopo che qualcuno gli aveva finanziato la ricostruzione della bocca, tornò a dare poesia alla tromba. Che impegnò in più occasioni. Che dolore deve essere stato per Chet dare via la sua tromba più e più volte per finanziarsi l’eroina.

Una vita vissuta sulla strada e nel vento, quella di Chet. Tra spacciatori e alberghetti. In uno di questi, ad Amsterdam, volò dalla finestra. Non aveva sessant’anni. Era il maggio dell’88.

Visse per anni in Italia. Qui sperimentò il carcere, per l’eroina. Dietro quelle sbarre si ripulì. Piccole folle si riunivano sotto la sua cella ad ascoltare le malinconie di quella tromba, si dice. Ma l’eroina lo rivoleva per sé. E Chet non si lasciò pregare, uscito dal carcere.

Chi lo conobbe racconta della sua aggressività, ma anche dei suoi momenti di dolcezza infinita.

Chet Baker

Chet Baker, una biografia movimentata

Era quasi Natale quando Chesney «Chet» Baker venne al mondo. Era il 1929. La cittadina dell’Oklahoma dove iniziò la sua storia turbolenta era Yale.

La famiglia Baker, una decina d’anni dopo, si trasferì in California.

Chet sentiva aria di musica. Infatti il padre suonava il banjo in un’orchestrina.

Così quel bambino iniziò a prendere lezioni. Fu proprio il padre a regalargli un trombone.

Ma il suo destino era la tromba. Quel destino si manifestò sotto forma di uno scambio. Chet diede via il regalo per una tromba. Così prese a soffiare in quello strumento. Certo non immaginava che poesia vi avrebbe tirato fuori tra qualche anno.

A sedici anni Baker era già inquieto. Si arruolò nell’esercito. Arrivò a Berlino. Qui si immerse nel jazz europeo.

Congedato nel ’48, il ragazzo tornò ad arruolarsi nel ’50. Fu destinato a San Francisco. Chet Baker cominciò a essere Chet Baker. A subire il fascino della trasgressione e delle notti. Così la sera fuggiva, per suonare nei locali notturni. Spedito in Arizona, fu introvabile per settimane. Infine fu riformato. Chet non era certo tipo da caserma. Intanto, dentro quella tromba, il jazz cresceva.

Il jazz e la notte

Nel ’52 il ragazzo era a Los Angeles. Iniziò a respirare aria di jazz vero. Lo volle con sé anche Charlie Parker. Parker era nel suo declino, tra droghe e follie. Ma era stato l’inventore del jazz moderno.

La storia di Chet poteva cominciare. Ed è storia nota, fatta di poesia, di tormenti, di trasgressioni, di notti.

«A Roma», racconta Daniela Amenta, «era di casa in un club che non esiste più: si chiamava Music Inn. A volte capitava di incontrarlo sul Lungotevere, indossava certi maglioni di lana grossa, bianchi. Aspettando l’autobus notturno, Chet, quando ne aveva voglia, si metteva a suonare Almost Blue in quel silenzio denso, ed era un miracolo. Era poesia e uno struggimento che si fa fatica a dire. Un tremito, una magia. Quasi triste. Quasi tristi noi, incapaci di dire addio a un cowboy disarmato. Solo chi ha talento può sprecarlo. E farsi rimpiangere per sempre.»