Vittorio De Sica, con i suoi film della seconda metà degli anni Quaranta, aderì al neorealismo, dandogli due vette indiscusse. Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) sono davvero due pellicole senza tempo, che, con altri capolavori della cinematografia italiana di quegli anni, sono state prese a modello da più generazioni di cineasti.
Il neorealismo, nato dalle devastazioni della guerra, rinnovò prepotentemente il cinema. Per le ambientazioni, le storie di angoscia e di povertà, la poesia cavata dalla verità documentale, gli attori non professionisti, il dialetto, lo stile spoglio. Il neorealismo fu una grande ondata di modernità.
Uno dei suoi teorici fu Cesare Zavattini. I due film in questione (e non solo quelli) di Vittorio De Sica, Sciuscià e Ladri di biciclette, vennero fuori proprio dal binomio De Sica-Zavattini. Regista il primo, soggettista e sceneggiatore il secondo. In particolare, Ladri di biciclette è un modello di neorealismo. Uscì nel ’48, un anno d’oro per il cinema italiano. L’anno in cui vide la luce, tra gli altri capolavori, La terra trema di Luchino Visconti. Che però, con l’elitarismo di quel dialetto incomprensibile, con la poesia di quei suoni senza tempo, se è un vertice del neorealismo, ne è a un tempo il superamento.
Ma ecco Sciuscià e Ladri di biciclette, che, con Umberto D. del ’51, sono i film capolavoro con cui Vittorio De Sica abbraccia il neorealismo.
Sciuscià, il film con cui Vittorio De Sica aderisce al neorealismo
Secondo dopoguerra. Roma è distrutta. Due ragazzi allo sbando puliscono le scarpe ai soldati americani. La vita è dura. Giuseppe e Pasquale, gli sciuscià, i lustrascarpe, si arrangiano. Ma non hanno sepolto i sogni e la fantasia. Così, appena possono, vanno a cavalcare Bersagliere, un cavallo bianco. Finiti in una trappola, i due ragazzi sono coinvolti in un furto. Con i soldi guadagnati comprano Bersagliere. Ma finiscono in carcere. Pasquale confessa, per evitare che Giuseppe venga picchiato. In realtà è ingannato. La confessione gli viene estorta.
I giorni del carcere sono duri. Più di quelli passati sulla strada. La giustizia è un’idea lontana. Tra quelle mura spadroneggia la violenza. Giuseppe e Pasquale si allontanano, anche per la confessione del secondo.
Giuseppe e un altro fuggono. Poi Pasquale, che teme di perdere Bersagliere, conduce le guardie alla stalla dov’è custodito il cavallo. Affronta Giuseppe, che nella lite cade, batte la testa e muore. Pasquale, disperato, piange il vecchio amico. Bersagliere si allontana. Il film si chiude su quelle infanzie negate, e sul passo implacabile di quel cavallo bianco.
Sciuscià, la durezza della realtà portata sullo schermo
Se Sciuscià fece fatica ad affermarsi in Italia, per la durezza di certe scene, per quelle storie estreme, negli Stati Uniti ebbe grandi consensi. Ebbe anche, nel ’47, un Oscar onorario.
Il film fu girato con pochi mezzi, secondo la formula neorealista. Vittorio De Sica si avvalse principalmente di attori non professionisti, per salvaguardare la verità di quelle storie di strada. La poesia nuda di Sciuscià segnava l’adesione di De Sica al neorealismo, che con lui si allontanava dalla guerra e affrontava la povertà e i disagi dell’Italia del dopoguerra. Soprattutto De Sica fu insuperabile nel dirigere gli attori bambini. Lo avrebbe confermato con Ladri di biciclette.
Sciuscià è una dura condanna del mondo adulto. Dei suoi inganni, delle sue violenze. È una condanna delle istituzioni.
Sciuscià è la realtà portata sullo schermo. Nessun accenno forzatamente drammatico. A essere drammatica è la realtà. De Sica si limita a ritrarla. La sua regia spoglia è un atto di coraggio e un vertice indiscusso dell’arte del secondo dopoguerra.
Ladri di biciclette, il film capolavoro di Vittorio De Sica
Anche la Roma di Ladri di biciclette è quella del secondo dopoguerra.
Antonio Ricci vive con la moglie Maria e il figlio Bruno in una catapecchia della periferia. È disoccupato. Finalmente trova lavoro come attacchino. È la speranza di un futuro diverso. Ma occorre la bicicletta. Lui ce l’aveva, ma l’ha impegnata per mangiare. Così la moglie impegna le lenzuola per riscattarla.
Al primo giorno di lavoro la bicicletta viene rubata. Antonio, disperato, denuncia il furto alla polizia, che però ha altro a cui pensare. Se la deve cavare da solo.
Il giorno dopo cerca di rintracciarla, con l’aiuto di un amico e del piccolo Bruno, nei mercati dove sono venduti gli oggetti rubati. A un certo punto riconosce il ladro. Lo insegue inutilmente. Poi si reca da una santona, a cui in passato si era rivolta la moglie. È tutto inutile. Dopo quella visita, scorge di nuovo il ladro, che è in compagnia di un barbone. Il ladro fugge di nuovo. Antonio lo cerca, anche pressando il barbone. Alla fine lo trova davanti alla sua casa. Ma il ragazzo nega il furto, e la folla del quartiere è minacciosa verso Antonio. Poi arriva una guardia, che dà un’occhiata alla modesta casa del ragazzo in cerca della refurtiva. Niente. Comunque Ricci, alla fine, non denuncia il ladro.
Nel suo vagabondare con Bruno, Antonio si imbatte più tardi in una partita di calcio. Nelle vicinanze dello stadio, ruba una bicicletta appoggiata a un muro. Viene inseguito e fermato dal proprietario e da una piccola folla. Viene umiliato. Ma il proprietario, intenerito dallo sguardo del piccolo Bruno, rinuncia a denunciarlo. Così Antonio e Bruno si avviano verso casa, persi nel destino.

Ladri di biciclette, il film con cui Vittorio De Sica sintetizza il neorealismo
Se Sciuscià è un capolavoro, con Ladri di biciclette Vittorio De Sica si supera. Questo film è la quintessenza del neorealismo. Ladri di biciclette è la formula definitiva del cinema della verità. Le periferie, colme di desolazione e di miseria. Il dialetto. Gli attori presi dalla strada. La povertà dei mezzi e la regia nuda. Le devastazioni del dopoguerra e le prime, timide speranze di rinascita.
Poi la scarsa importanza data all’ellisse. Il rilievo dato ai tempi morti. De Sica non schematizza la realtà. Protagonista è la realtà, non il cinema. In effetti il cinema supremo di Ladri di biciclette sta nella negazione del cinema. La storia è esigua. Niente invenzioni eclatanti. Perché è il mondo a essere eclatante. È la quotidianità a essere colma di angoscia e di disperazione. Colma di cinema.
Ladri di biciclette è grande poesia. Una poesia cavata dalla realtà più cruda.
Ed è anche uno spaccato inarrivabile dell’Italia di quegli anni. Non solo la povertà, i timidi voli di riscatto, le strade devastate. Anche le riunioni sindacali, lo stadio pieno e altri segni di quel tempo.
Un film sulla solitudine
Ladri di biciclette è anche un film sulla solitudine. Antonio Ricci è solo. A parte la moglie, il figlio e un amico, nessuno si interessa alla sua sventura. Deve cavarsela da solo. La sua denuncia del furto è accolta quasi con derisione dalla polizia, che deve pensare a cose più importanti. Ma la bicicletta è importante per Antonio. Infatti a quelle due ruote sono legate la sua speranza e la sua sopravvivenza. Anche la santona lo deride. L’uomo è solo, con le sue tragedie e con il suo destino.
Proprio la solitudine del protagonista alienò dal film le simpatie di certa sinistra, che non tollerava l’assenza della lotta collettiva. Per altre ragioni, anche i democristiani non accolsero bene il film. La Dc considerava Ladri di biciclette una cattiva pubblicità per l’Italia. Ma a De Sica non importava pubblicizzare un’Italia inesistente.

Ladri di biciclette, un invito a non condannare
Il film è un capolavoro già dal titolo. Ladri, al plurale. Perché anche Antonio Ricci ruba una bicicletta, nonostante nessuno di noi lo veda come un ladro. Antonio è una vittima, subisce il ladrocinio. E, preso dall’impossibilità di riavere il suo prezioso mezzo, commette a sua volta il furto. Quel furto viene dalla povertà e dalla necessità. E dal sopruso subito. Nessuno qualificherebbe Antonio come un mascalzone. È molto più facile condannare il ragazzo che gli ha preso la bicicletta. Ma questo ragazzo, lascia intendere il titolo al plurale, è a sua volta vittima di miserie e di necessità, accennate dalla sua squallida abitazione. La condanna nei suoi confronti è più facile perché la sua storia, a differenza di quella di Ricci, non la conosciamo.
Ladri di biciclette, con quel titolo che mette sullo stesso piano i due ladri, è anche un invito a non condannare. Chissà cosa si nasconde dietro il furto di quel ragazzo. Se lo sapessimo, forse saremmo comprensivi con lui, come lo siamo con Antonio.