Pearl di Janis Joplin. Il blues e gli abissi

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Pearl è l’album dove culmina l’arte di Janis Joplin. Joplin lo portò a termine poco prima della morte, e non fece in tempo a vederlo pubblicato.

Janis morì il 4 ottobre del 1970, un paio di settimane dopo la morte di Jimi Hendrix. Entrambi se ne andarono a ventisette anni. Come Brian Jones dei Rolling Stones. Come sarebbe stato per altri: Jim Morrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse, altri. L’inquietante club dei 27 cominciava così a ingrossarsi.

Joplin morì per un’overdose di eroina, nella sua stanza d’albergo di Hollywood. La trovò incastrata tra il letto e il comodino l’amico John Cook. Pare che la ragazza stesse provando a ripulirsi. Ma in questi percorsi le ricadute sono in agguato. Quella morte colorò di tragedia e di leggenda Pearl. Colorò di sincerità estrema quelle disperazioni.

La sincerità è il tratto più evidente del rock blues di Janis Joplin. Per la cantante del Texas non c’era una linea di confine tra la sua vita e la sua arte. Sul palco la ragazza metteva se stessa, senza scudi e senza protezione. Urlava, gemeva, si addolciva. Si scagliava contro il mondo. Metteva in scena tutta la sua solitudine.

Pearl, il blues e gli abissi di Janis Joplin

Pearl è il vertice e la maturità di Janis Joplin.

Lo apre un brano scritto da lei, Move Over. Ma la Joplin non era una grande autrice. Era un’inarrivabile interprete. Infatti Move Over esprime il suo mondo interiore per l’irruenza del canto, per i tormenti della voce. Un bellissimo incrocio di blues e di rock che introduce uno dei 33 più belli e sentiti del decennio. Fuoco, disperazioni, urla, malinconie, sottili ferite sono gli ingredienti di Pearl, il nome con cui Janis Joplin veniva chiamata dagli amici.

Poi c’è Cry Baby, che da sola vale il prezzo del disco. Qui la voce sporca, roca, ululante, che sale dalle viscere e da traumi antichi, è nel suo splendore. Qui è impossibile non rabbrividire.

E via via tutto il resto, dal gospel immortale di My Baby agli altri gioielli. La voce è rabbiosa, sguaiata, rozza. Poi s’intenerisce. Poi s’impenna. Pearl è una catarsi. È un grido di ribellione. Una richiesta d’aiuto. Pearl è Janis Joplin. Pearl è una medicina. È un intontimento che fa dimenticare la disperazione, che tornerà più forte quando il silenzio avrà sepolto il canto. Pearl è tante cose. È soprattutto uno degli esiti più vertiginosi del blues bianco.

I tormenti di Janis Joplin

Janis Joplin nacque nel gennaio del ’43 a Porth Arthur, nel Texas.

Nell’adolescenza cominciarono a manifestarsi i suoi demoni. Negli anni del liceo Janis era piena di complessi. Non amava il suo corpo. Il suo viso era ricoperto di acne.

La ragazza era bullizzata. «Molti studenti ricorderanno il loro passato come il periodo più bello della vita ma io troverò il mio splendore lontano da questa città soffocante.»

La sua strada in realtà cercò di trovarla subito, in quella città soffocante.

Iniziò ad abitare nel Ghetto, tra le case popolari. In quel posto si suonava. E Janis cominciò a cantare. Cominciò anche a bere bourbon.

Poi una notte di gennaio partì per San Francisco.

La sua voce roca, i suoi modi sgraziati, la sua sincerità disperata presero a riempire i locali. Ma il successo era lontano.

Le droghe si affiancarono all’alcol. E Janis cominciò a parlare con la morte.

Janis Joplin
Janis Joplin nel periodo in cui stava lavorando a Pearl, poco prima della sua morte.

Verso la leggenda

Aveva poco più di vent’anni la Joplin quando tornò nella città soffocante. Forzò i suoi panni dentro quel provincialismo. Dentro quelle certezze antiche.

Ma Janis era Janis. Così nell’estate del ’66 era di nuovo a San Francisco, dove bolliva il futuro. Diventò la cantante dei Big Brother and the Holding Company, con cui avrebbe inciso due album, prima di iniziare la carriera solista.

La Joplin diventò presto un’icona hippie. Cominciò a vestire colori, a indossare collane e anelli. Ma Janis non era un’hippie, nonostante le apparenze. La protesta gioiosa e la gioventù spensierata non facevano certo per lei. Lei combatteva contro i suoi fantasmi e contro le sue paure.

Intanto il bourbon scendeva, uno dietro l’altro, in tutta quella solitudine. La voce diventava più sporca. Quella voce incantò Monterey, nel giugno del ’67. Incantò Woodstock, due anni dopo.

Quella voce arrivò alla sua maturazione in Pearl, l’album che consegnò Janis Joplin alla leggenda.