Un grande tema delle canzoni di De Gregori, l’album omonimo del cantautore romano pubblicato nel ’78, è la violenza.
La violenza della legge nel brano L’impiccato, dove le persone portate in questura sembrano non avere diritti («Il terzo, accusato di oltraggio / non fece in tempo a aprire la bocca / che un pugno lo mise a sedere») e non avere difesa («Il quarto si chiamava Tommaso / e pregava e piangeva / chiese di telefonare all’avvocato / ma l’avvocato non rispondeva»). Un brano dove la cosiddetta giustizia si scaglia senza pietà contro l’accusato («e il quinto venne assunto in galera / per un indizio da poco / e fu crocefisso col ferro e col fuoco»), e dove la morte passa in secondo piano rispetto al pettegolezzo e alle banalità quotidiane («e tutti si domandarono / di che segno era il morto», canta De Gregori nel bellissimo finale).
La violenza familiare, nei confronti di una bambina, nella delicatissima Babbo in prigione.
La violenza dei vincitori, che isolano gli sconfitti (nella Campana).
Poi la violenza della guerra, in Generale, l’apertura dell’album e una delle canzoni di Francesco De Gregori più iconiche e belle, con quella melodia indimenticabile. Vincere non è meglio che perdere, perché in ogni caso la guerra è distruzione e dolore, e lascia dietro di sé solo il silenzio e la desolazione («Generale, la guerra è finita / il nemico è scappato, è vinto, è battuto / dietro la collina non c’è più nessuno / solo aghi di pino e silenzio e funghi») e il desiderio del calore familiare («tra due minuti è quasi giorno / è quasi casa, è quasi amore»).
Canzoni di malinconia e di libertà
Ma la violenza non porta mai, in queste tracce, alla rabbia e alla disperazione, piuttosto alla malinconia e al raccoglimento.
Proprio la malinconia è il vero filo conduttore dell’album, tra i più poetici e toccanti di De Gregori, una malinconia che trae la sua forza anche dall’altro grande tema di queste canzoni, la lontananza.
Per quel che riguarda i brani ricordati finora, ci imbattiamo nella lontananza della mamma dai figli «partiti al mondo come soldati / e non ancora tornati» (in Generale), nella lontananza della bambina dal genitore arrestato (in Babbo in prigione), e infine, nella Campana, in quella dell’uomo sconfitto, separato dai suoi amici, che «sono tutti in galera / sono tutti fregati / sono tutti schedati».
Negli altri brani domina la lontananza temporale. Quella che separa da un vecchio amore, in Natale e in Renoir, e quella che separa dall’infanzia, nel ’56.
Dovunque soffia un vento di malinconia, d’inverno, di solitudine. Ma è proprio nella solitudine, nel raccoglimento, nello stare con se stessi e con i propri ricordi che De Gregori pare trovare la via d’uscita dal dolore, in un clima dolceamaro che pervade i trentadue minuti di quest’album capolavoro. Ne è una spia il finale della Campana: «e sotto questo grande cielo azzurro / finalmente mi sentivo un uomo solo».
Fino al brano conclusivo, Due zingari, dove la solitudine di due ragazzi, che per la loro etnia sono emarginati, ha i connotati della libertà. Uno splendido pezzo, che profuma di notte e di spazi sconfinati.

De Gregori, un album di canzoni memorabili
De Gregori chiudeva la grande trilogia iniziata con Rimmel, album del 1975, e proseguita con le canzoni di Bufalo Bill (1976). A questi lavori si aggiungeva la prestigiosa collaborazione con Fabrizio De André in Volume 8 del 1975. Erano quelli gli anni di massima vena del Principe, che snocciolava uno dietro l’altro molti dei suoi pezzi più belli. Il cantautore romano si era lasciato alle spalle il periodo ermetico ma non rinunciava a immagini incisive.
In De Gregori, naturalmente, è la parola a farla da padrone, ma le melodie non sono mai banali. E poi ci sono alcuni momenti musicali memorabili, come l’assolo di sax che chiude Due Zingari, degno epilogo del 33. Su tutto, la voce. Una voce nasale, inimitabile, malinconica, incisa nell’animo di tutti noi e nella storia della canzone italiana.