I versi di Strange Fruit, la canzone più bella di Billie Holiday, scritta da Abel Meeropol, spezzano il fiato. E ci si chiede come sia possibile che il razzismo e l’odio denunciati in questo brano possano arrivare a tanto. Strange Fruit è una protesta, una delle più alte e forti che siano mai risuonate negli Stati Uniti. Un pugno nello stomaco dell’America.
L’uomo penzolante del brano è un afroamericano linciato nel Sud:
Gli alberi del Sud producono uno strano frutto,
sangue sulle foglie e sangue alle radici,
un corpo nero che ondeggia nella brezza del Sud,
uno strano frutto che pende dai pioppi.
Una scena pastorale nel valoroso Sud,
gli occhi sporgenti e la bocca storta,
profumo di magnolia dolce e fresco,
e d’improvviso l’odore della carne che brucia.
Qui c’è un frutto che i corvi possono beccare,
che la pioggia inzuppa, che il vento sfianca,
che il sole marcisce, che l’albero lascia cadere,
qui c’è uno strano e amaro raccolto.
Strange Fruit, una bandiera di ribellione
Questi linciaggi erano una pratica ancora diffusa negli anni Trenta, specie negli stati del Sud. Abel Meeropol, insegnante ebreo e membro del Partito comunista, scrisse questi versi toccanti, li musicò, e li lasciò cantare alla moglie per piccolissime platee. Finché un giorno il destino di Strange Fruit incontrò quello di Billie Holiday e della sua voce inimitabile, che diede alle leggende musicali del Novecento una delle sue vette indiscusse, carica di pathos, di lacrime, di rabbia, di rivolta. Carica di coraggio. Perché in quegli anni opporsi al razzismo voleva dire consegnarsi alle persecuzioni. Ma a Billie Holiday il coraggio non mancava. Aveva affrontato il destino a muso duro dall’inizio della sua vita, e non poteva non regalare ai suoi fratelli neri una bandiera di ribellione.
Costretta a crescere in fretta
Scrive Billie Holiday all’inizio della sua autobiografia: «La mamma e il babbo erano ancora due ragazzi quando si sposarono. Lui aveva diciotto anni, lei sedici, io tre. La mamma lavorava come cameriera, da una famiglia di bianchi, e quando i padroni si accorsero che era incinta la buttarono fuori su due piedi… I ragazzi erano tutti e due poveri, e da poveri si cresce alla svelta. […] Ma Sadie Fagan mi volle bene fin da quando non ero per lei che un mucchio di calci nelle costole mentre strofinava pavimenti. Andò all’ospedale e si mise d’accordo con la direttrice. Le disse che per pagare l’assistenza per sé e per me era disposta a pulire per terra, per un certo periodo, e che avrebbe fatto la serva anche alle altre bagasce che andavano lì a partorire. Quel mercoledì 7 aprile 1915, quando io nacqui a Baltimora, la mamma aveva tredici anni».
Sono belle anche le menzogne (Billie non nacque a Baltimora ma a Filadelfia e i suoi genitori non si sposarono), che aiutano l’autobiografia a diventare un romanzo. Un incipit suggestivo che ci introduce alla storia di questa bambina, costretta a crescere in fretta.

Foto di Welcome to all and thank you for your visit ! ツ da Pixabay.
Una voce carica di dolore
Il razzismo e la povertà Billie li visse sulla sua pelle. Violentata a undici anni, poi chiusa in riformatorio perché non creduta in quanto nera. Ancora preadolescente si prostituiva per raggranellare qualcosa e aiutare la madre. Chiusa di nuovo in riformatorio quando la polizia scoprì il bordello.
Ma c’era la musica. C’era il jazz, che Billie incontrò giovanissima, a quindici anni, nei club di Harlem, dove la sua voce cominciò a emozionare. Una voce carica del dolore di una vita. Una voce vera, che andava al di là della tecnica.
Quando Billie Holiday eseguì per la prima volta Strange Fruit
Billie Holiday sentiva sulla sua pelle le parole di Strange Fruit, e ne diede sempre interpretazioni struggenti. Alcuni parlano di esecuzioni disturbanti, perché ci trasportano ai piedi di quell’albero e del suo frutto amaro pieno di sangue. In pochi si sono cimentati con questa canzone, ché il paragone con Billie Holiday non è facile da sostenere.
La prima volta che Billie cantò quelle parole aveva quasi ventiquattro anni, ed era già affermata. Era la regina della Cinquantaduesima strada.
Si sa come andò. Il club era il Café Society di New York, nel Greenwich Village, un locale all’avanguardia, dove gli afroamericani erano trattati con rispetto. Quella sera d’inverno del ’39, quasi al termine della sua esibizione, Billie chiuse gli occhi e intonò Strange Fruit. Le leggende raccontano che si spensero le luci, e che un riflettore illuminò il viso di Holiday. E a noi piace pensare che andò così, quella sera, quando la poesia e la ribellione s’incontrarono, ponendo il primo mattone della lotta politica dei neri d’America.
Era il ’39. Mancavano sedici anni al giorno in cui Rosa Parks, a Montgomery, si sarebbe rifiutata di cedere il posto a un bianco su un autobus. Ne mancavano ventiquattro alla marcia su Washington di Martin Luther King e al suo iconico discorso. Billie Holiday era una vecchia bambina impaurita dalle vicende della vita, ma sapeva essere anche un leone.

Il coraggio di Billie Holiday
Billie fu invitata a non cantare più Strange Fruit dal severo funzionario Anslinger. Lei non obbedì. Anslinger la fece pedinare allo scopo di trovarla in possesso di droga. Un anno e mezzo di carcere. Ma Billie non si pentì mai del suo rifiuto. Sarebbe stata perseguitata dal funzionario fino alla fine, ammanettata in ospedale sul letto di morte.
Quella sera, al Café Society, furono brividi. L’atmosfera era quella delle leggende. Si stava facendo la storia. Si stava dando al jazz uno dei suoi pezzi più grandi. Quando la voce di Billie si spense, quando quel riflettore si spense, ci fu un silenzio carico di tante cose, prima che l’applauso si sciogliesse. Strange Fruit fu da quella sera la conclusione delle esibizioni di Billie Holiday. Perché, come lei stessa disse, dopo quel pezzo non si poteva cantare niente.
Oggi per molti non dev’essere facile rendersi conto di ciò che rappresentò Strange Fruit in quel punto della storia. Per avere un’idea del clima di quegli anni basti pensare che in molti locali Billie Holiday, Lady Day, la regina del palco, poteva entrare solo dalle porte riservate ai neri, doveva restare chiusa in camerino prima dell’esibizione, aveva problemi nell’usufruire dei bagni, nel mangiare. In tour capitava che dovesse alloggiare in un albergo diverso da quello dei musicisti per evitare che questi avessero problemi e fossero insultati. Era una nera, dopotutto…
Strange Fruit, una canzone indimenticabile
La brutalità del linciaggio cantato in Strange Fruit acquista forza dal contrasto con la bellezza della natura. Gli alberi, la brezza, il profumo di magnolia da un lato. Il sangue, gli occhi sporgenti, la bocca storta, il corpo beccato dai corvi e marcito dal sole dall’altro.
Questa canzone è indimenticabile perché vi s’incontrarono il dolore espresso da quei versi e il dolore di cui era impregnata la voce di Billie Holiday. L’arte di Billie era sempre stata straziante, al di là delle parole cantate. Lo strazio era nella sua voce, testimone di una storia di soprusi subiti. Un canto malinconico e commovente. In Strange Fruit, quella voce carica in sé di dolore aderiva perfettamente al dolore del testo. In quei versi Billie ritrovava tutti i torti, le violenze, le umiliazioni patiti dai neri.
Strange Fruit è indimenticabile anche perché difficilmente in una canzone bellezza e utilità politica si sono intrecciate in modo così perfetto.